“Lentamente muore chi non viaggia”.

Ha scritto Pablo Neruda:<<Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso>>. Perché viaggiare? Perché sottoporsi alle fatiche e disagi? Perché vagheggiare paradisi esotici se alla fine non ne resterà che un sapore già visto? In realtà viaggiamo perché non ne possiamo fare a meno. L’idea del viaggio ci appartiene, ci tenta.  Quando l’uomo, la donna, camminano, viaggiano, spesso cambiano soltanto lo scenario, il paesaggio; non cambiano se stessi, raramente viaggiano al loro interno. Il cambiamento di scenario, di paesaggio, crea in noi l’illusione di vivere, di cambiare, di «fluire», ma in realtà si verifica un immobilismo psicologico con tratti distinti che ci ingannano e attraverso i quali inganniamo gli altri. Per vivere veramente è necessario viaggiare all’interno di se stessi. Ognuno di noi ha un luogo che ama particolarmente. Legato all’infanzia, a un momento significativo della propria vita, a una illuminazione. Luoghi che ci appartengono perché in qualche modo noi apparteniamo a loro. Li amiamo come si ama una madre, una sposa, un amico. Ogni volta che vi torniamo ne scrutiamo con apprensione l’aspetto, per verificare se sono cambiati in nostra assenza. Il viaggio allora è dentro di noi con l’irresistibile necessità di ritrovare la vita nella sua forma pura. Per esempio: se la linea azzurra del mare ci seduce tanto, è anche perché questa immensità ci ricorda il nostro vero orizzonte; se saliamo sulle alte montagne, è perché nella visione chiara che di lassù si raggiunge del reale, in quella visione fulgida e senza cesure riconosciamo una parte importante di un appello più intimo; se andiamo in cerca di altre città (e, in queste città, di un’immagine, di un frammento di bellezza, di un non so che…), è anche perché stiamo inseguendo una geografia interiore; se semplicemente ci concediamo un’esperienza del tempo dilatata (pasti assunti senza fretta, conversazioni che si prolungano, visite e incontri), è perché la gratuità, e solo essa, ci dà il sapore protratto dell’esistenza stessa.
A volte, tutto quel che ci serve è abitare la vita in un altro modo. È semplicemente camminare con un altro passo sulle strade che già ogni giorno percorriamo. È aprire la finestra quotidiana, ma lentamente, nella consapevolezza che la stiamo aprendo. È, in fondo, assaporare il gusto delle cose più semplici. Pensiamo alla proposta che, più di una volta, Gesù fa ai discepoli: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35). Passare all’altra riva non significa necessariamente il trasferimento a un altro luogo, diverso da quello in cui ci troviamo. I viaggi non sono solo esteriori. Non è semplicemente nella cartografia del mondo che l’uomo viaggia. Fare uno spostamento comporta un cambio di posizione, una maturazione dello sguardo, apertura al nuovo, un adattamento a realtà e linguaggi, un confronto, un dialogo, inquietante o incantato, che necessariamente lascia impressioni molto profonde. L’esperienza del viaggio è esperienza della frontiera e di nuovi spazi, di cui l’uomo ha bisogno per essere sé stesso. Il viaggio è una tappa fondamentale nella scoperta e nella costruzione di noi stessi e del mondo. È la nostra coscienza che cammina, scopre ogni dettaglio del mondo e tutto guarda di nuovo come fosse la prima volta. Il viaggio è una sorta di propulsore di tale sguardo nuovo. E’ bello allora riascoltare l’invito di Gesù. «Passiamo all’altra riva».

+ Angelo, arcivescovo