Veglia diocesana di Pentecoste nella Cattedrale di San Ciriaco

È stata un momento di unità, incontro e preghiera la veglia diocesana di Pentecoste, presieduta dall’Arcivescovo Angelo Spina nella Cattedrale di San Ciriaco e animata dai gruppi ecclesiali, dai movimenti e dalle associazioni: Laici Saveriani, Movimento dei Focolari, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Cammino Neocatecumenale, Comunione e Liberazione, Nuovi Orizzonti, Agesci, Azione Cattolica, Milizia dell’Immacolata, Rinnovamento nello Spirito Santo, Rete mondiale di preghiera del Papa, Fides Vita. La Chiesa locale di Ancona-Osimo si è riunita in preghiera nella basilica cattedrale, chiesa madre di tutte le chiese, per invocare la discesa dello Spirito Santo su ognuno, sulla città e sul mondo intero. Nel cammino sinodale delle chiese in Italia si sta infatti sperimentando la forza dello Spirito che tutto muove e rinnova. Nella diversità dei carismi sta la ricchezza della Chiesa ed è lo Spirito Santo che crea unità e comunione.

Dopo la processione e il canto iniziale, alcuni membri del Movimento di Focolari hanno letto alcuni brani tratti dalla lettera pastorale 2021/2022 scritta dall’Arcivescovo e, mentre la Sacra Bibbia è stata portata all’altare, il Rinnovamento nello Spirito Santo ha invocato lo Spirito Santo e ha guidato la preghiera. Sono seguite alcune letture: Comunione e Liberazione ha letto Atti degli Apostoli  (cap. 10,26-44); Nuovi Orizzonti la Prima Lettera ai Corinzi 12,31 e 13,1-13; il Cammino Neocatecumenale la Seconda Lettera ai Corinzi 4,6-18. Quattro le testimonianze ascoltate: Claudio (Fides Vita), Enrica (Rns), la famiglia Baldinelli (Neocatecumenali) ed Elena (Milizia dell’Immacolata) hanno raccontato come lo Spirito Santo ha operato nella loro vita e nelle loro famiglie. Dopo l’omelia dell’Arcivescovo sull’importanza dell’unità, è seguita la preghiera dei fedeli. La veglia è terminata con il Padre Nostro cantato, la benedizione dell’Arcivescovo e il canto finale Reina de la paz.

Pubblichiamo l’omelia integrale dell’Arcivescovo Angelo Spina

Lo Spirito Santo e la comunione ecclesiale

Carissimi fratelli e sorelle,
è una gioia vedere la nostra Chiesa locale che è in Ancona-Osimo radunata in preghiera nella basilica cattedrale, chiesa madre di tutte le chiese, per la Veglia di Pentecoste. Nel cammino sinodale delle chiese in Italia stiamo sperimentando la forza dello Spirito che tutto muove e rinnova e noi crediamo che lo Spirito Santo è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato.
Noi siamo stati «Battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo».
Il racconto della Pentecoste, negli Atti degli Apostoli, comincia con l’indicazione del tempo e del luogo: «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2, 1). Il tempo è dunque quello in cui gli ebrei celebravano la festa di Pentecoste e il luogo è quello della «sala al piano superiore» in cui gli apostoli si erano ritirati dopo l’Ascensione di Gesù (cf At 1, 13). Nei versetti successivi segue la descrizione di ciò che avviene all’interno del cenacolo: «Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». L’avvenimento della Pentecoste non può rimanere nascosto, la notizia dell’accaduto trabocca e si diffonde all’esterno. «A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua».

Da quanto ascoltato vediamo che lo Spirito Santo lavora in due modi per l’unità della Chiesa. Uno verso l’interno a consolidare l’unità raggiunta e l’altro verso l’esterno, ad abbracciare nella sua unità un numero sempre maggiore di categorie e di persone.
Vediamo il primo dei due movimenti in atto nel capitolo 10 degli Atti, nell’episodio della conversione di Cornelio. Fino a che punto deve spingersi l’universalità della comunità dei discepoli di Cristo e chi è chiamato a entrare in essa? Dopo l’esperienza fatta il giorno di Pentecoste, gli apostoli erano pronti a rispondere: tutti i giudei e gli osservanti della legge. Tali infatti erano quelli che il giorno di Pentecoste avevano aderito alla fede. Occorse un’altra Pentecoste, molto simile alla prima – quella appunto in casa del centurione pagano Cornelio –, per indurre gli apostoli ad allargare l’orizzonte e far cadere l’ultima barriera, quella tra giudei e gentili. Leggiamo negli Atti degli Apostoli 10,44-46: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio».

Il secondo movimento lo vediamo in atto al capitolo 15 degli Atti, nello svolgimento del concilio di Gerusalemme, quando il problema è come far sì che l’universalità non comprometta l’unità interna della Chiesa. Lo Spirito Santo rivela un altro suo modo di operare l’unità che è necessario saper riconoscere. Egli non opera nella Chiesa sempre in maniera repentina, con interventi miracolosi e risolutivi, come a Pentecoste, ma anche, e più spesso, in un secondo modo: con una presenza e un lavorio discreto, rispettoso dei tempi e delle divergenze umane, passando attraverso persone e istituzioni, preghiera e confronto e tutto orientando, anche se in tempi più lunghi, al compimento dei disegni del Padre. Così infatti avvenne, nel concilio di Gerusalemme, per la questione dell’atteggiamento da tenere verso i convertiti dal paganesimo, se imporre la circoncisione ai pagani che si convertivano al cristianesimo o non imporla, la cui soluzione fu annunciata a tutta la Chiesa con le parole: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15, 28). Lo Spirito che a Pentecoste viene sugli apostoli, e che continua poi a guidare il cammino della Chiesa nella storia, è fondamentalmente uno Spirito di unità. San Paolo riassume con una sola frase questa comprensione del ruolo dello Spirito che fu anche la sua: «Battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei e greci» (1 Cor 12, 13).

Lo Spirito Santo, anima della Chiesa «Universale», all’origine, significa ciò che è rivolto all’uno (uni-versum), ciò che tende a formare qualcosa di unitario. Per sé, non indica dunque solo un movimento verso l’esterno, centrifugo, ma anche verso l’interno, centripeto. La Chiesa è universale non solo quando tende a raggiungere «i confini della terra», ma anche quando tende verso il suo centro che è il capo del corpo, il Cristo risorto. In questo senso, universalità e unità coincidono e lo Spirito di unità è anche lo Spirito di universalità della Chiesa.
La Tradizione della Chiesa ha colto assai per tempo questo significato della Pentecoste che riguarda l’universalità e l’unità della Chiesa. Scrive sant’Ireneo: «Come dalla farina asciutta non si può fare, senza l’acqua, una sola massa e un solo pane, così noi che siamo molti non potevamo divenire uno in Cristo Gesù senza l’Acqua che viene dal cielo».

Sant’Agostino ricorre a un’immagine per spiegare questo rapporto tra Spirito Santo e unità, l’immagine di ciò che fa l’anima nel corpo umano: «Ciò che è l’anima per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa. Lo Spirito Santo opera in tutta la Chiesa ciò che opera l’anima in tutte le membra di un unico corpo. Ma ecco ciò che dovete evitare, ecco da che cosa dovete guardarvi, ecco ciò che dovete temere. Può accadere che nel corpo umano anzi dal corpo umano venga reciso qualche membro: una mano, un dito, un piede. Forse l’anima segue il membro amputato? Quando questo era attaccato al corpo viveva; amputato, perde la vita. Così una persona è cristiana cattolica finché vive nel corpo; staccata da esso, diventa eretica e lo Spirito Santo non segue il membro amputato. Se dunque volete vivere dello Spirito Santo, conservate la carità, amate la verità, desiderate l’unità e raggiungerete l’eternità».
Questa famosa immagine dello Spirito Santo come anima della Chiesa ci aiuta a capire una cosa importante. Lo Spirito Santo non opera l’unità della Chiesa, per così dire, dall’esterno, come causa efficiente soltanto; non spinge soltanto all’unità, né si limita a comandare di essere uniti. No, egli «è» e «fa» l’unità. È lui stesso il «vincolo di unità», appunto come l’anima nel corpo.

Pentecoste e Babele

Ma perché, tra i vari fenomeni che accompagnarono la venuta dello Spirito Santo sugli apostoli, si dà tanto risalto al fenomeno delle lingue? Qui non si tratta infatti solo del noto dono di parlare in lingue sconosciute durante un’assemblea di preghiera. Questo, infatti, doveva essere sempre seguito dall’interpretazione da parte di qualcuno (cf 1 Cor 14, 27 s), mentre qui non c’è bisogno di alcuna interpretazione perché il miracolo consiste proprio nel fatto che ognuno comprende immediatamente ciò che gli apostoli dicono, come se li avesse uditi parlare nella sua lingua in contrasto tra ciò che accadde nella costruzione della torre di Babele e ciò che si verifica ora, nella Pentecoste. San Cirillo di Gerusalemme, per esempio, scrive: «A Babele, con la confusione delle lingue vi fu anche la divisione delle volontà, trattandosi di un progetto contrario a Dio; adesso invece le disposizioni degli animi sono restituite all’unità affinché si muovano verso un fine di pietà». Sant’Agostino a sua volta dice: «Per colpa di uomini superbi furono divise le lingue; grazie agli umili apostoli le lingue sono state riunificate».

L’unità di Babele è un’unità umana, decisa dall’uomo e che ha per scopo la gloria dell’uomo: «Venite – essi dicono –, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gn 11, 4). «Facciamoci un nome!», non: «Facciamo un nome a Dio!». È un progetto di unità che nasce da volontà di potenza e di fama, cioè da superbia. A Pentecoste, al contrario, tutti comprendono la lingua degli apostoli, perché essi «annunciano, nelle varie lingue, le grandi opere di Dio» (At 2, 11). Non stanno elevando un monumento a se stessi, ma a Dio. Accentuando questo elemento di contrasto, si può giustamente dire che la Chiesa, più che la nuova Babele, è l’antibabele.
L’insegnamento biblico che scaturisce dall’accostamento tra Babele e Pentecoste è dunque che vi sono due tipi di unità possibili: un’unità secondo la carne e un’unità secondo lo Spirito. Ciò che fa la differenza è il centro. Si tratta cioè di sapere chi è al centro di una certa unità, intorno a chi essa è costruita: se intorno a Dio o intorno all’uomo.

Tutti vogliamo l’unità. Dopo la parola felicità, non ce n’è, forse, alcun’altra che risponda a un bisogno altrettanto impellente del cuore umano come la parola unità. Noi siamo «esseri finiti, capaci di infinito» e questo vuol dire che siamo creature limitate che aspiriamo a superare il nostro limite, per essere «in qualche modo tutto». Non ci rassegniamo a essere solo quello che siamo. È qualcosa che fa parte della struttura stessa del nostro essere.
Il bisogno di unità è fame della pienezza dell’essere. Noi siamo fatti per l’unità, perché siamo fatti per la felicità. L’unità o la comunione con gli altri è infatti l’unico modo possibile per colmare quelle «voragini» che ci si aprono intorno. Al fondo non solo del matrimonio, in cui due persone si uniscono per formare una carne sola, ma, in modo diverso, anche nella ricerca dei beni materiali e della conoscenza, c’è un bisogno di unità. Un bisogno di annetterci più «territori stranieri» che possiamo.

Come realizzare concretamente questo bisogno di unità che c’è, più o meno avvertito, in ogni creatura razionale? È qui che le strade si dividono ed emergono due progetti di unità: l’unità di Babele e l’unità di Pentecoste, cioè l’unità secondo la carne e l’unità secondo lo Spirito. L’unità di Babele è quando ognuno vuole «farsi un nome», quando ognuno si pone al centro del mondo. Siccome noi siamo tanti e siamo diversi, per questa strada non potrà derivare che «confusione», come veniva appunto interpretato il nome stesso di Babele. Le parole, in questo caso, non fanno che dividere e si fa, anche concretamente, l’esperienza degli uomini di Babele che non si compresero più e si separarono. Tutti vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore, eppure essa è tanto difficile da ottenere che, anche nei matrimoni più riusciti, i momenti di vera e totale unità – non solo della carne, ma anche dello spirito – sono assai rari e sono, appunto, solo dei momenti. Perché questo? In genere, è perché noi vogliamo, sì, che si faccia l’unità, ma… intorno al nostro punto di vista. Il guaio è che l’altro che mi sta davanti vuole la stessa cosa. Così l’unità non fa che allontanarsi. Al contrario, l’unità di Pentecoste, o secondo lo Spirito, è quando si pone, o meglio si accetta, al centro Dio. Solo quando tutti tendono a questo «Uno», si avvicinano e si incontrano tra loro. Avviene come dei raggi di un cerchio, i quali, a mano a mano che procedono verso il centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a congiungersi e formare un unico punto. San Tommaso d’Aquino chiama l’amore di Dio aggregativo e quello di sé disgregativo. Passare da Babele a Pentecoste significa, per usare un’espressione di T. de Chardin, «decentrarci da noi stessi e ricentrarci su Dio».

Gli apostoli stessi sono la migliore dimostrazione di quanto siamo venuti dicendo. Prima della Pentecoste, quando erano alla ricerca ognuno di una sua affermazione o supremazia personale e a ogni occasione discutevano «chi tra loro fosse il più grande», non regnavano tra di essi se non malumori e contese (cf Mc 9, 34; 10, 41). Dopo la Pentecoste, quando la venuta dello Spirito ha spostato completamente l’asse dei loro pensieri da se stessi a Dio, ecco che li vediamo formare tra loro e con gli altri discepoli «un cuore solo e un’anima sola» (At 4, 32). Il linguaggio nuovo che essi hanno imparato e che tutti capiscono è il linguaggio dell’umiltà cristiana. È questa unità dello Spirito che deve sorreggere e coronare tutte le altre unità anche naturali del credente: l’unità nel matrimonio, tra l’uomo e la donna, l’unità fraterna nella comunità. È questa unità che fa esclamare con il salmo: «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!» (Sal 133, 1).
Nello Spirito, cioè sul piano della grazia, possiamo finalmente realizzare quel bisogno che c’è in noi di essere, in qualche modo, il tutto, e non dei frammenti dispersi. Sì, nello Spirito e grazie allo Spirito, tutto l’universo è raccolto in un punto solo e io sono in quel punto, felice di nuotare nell’oceano infinito del tutto che è Dio. Gesù aveva pregato proprio per questo: «che siano tutti in noi una cosa sola» (cf Gv 17, 21) e ora, grazie allo Spirito, questa preghiera si è avverata. Tutti possiamo essere «una cosa sola». «Un solo corpo, un solo Spirito» (Ef 4, 4): grazie allo Spirito, noi formiamo un corpo solo; non siamo più dispersi e frammentari. «Siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12, 5). Gli altri non sono più delle voragini oscure che si aprono accanto a me, ma sono parte di me e io di loro. «Siamo un corpo solo!» (1 Cor 10, 17), ci unisce lo stesso Spirito.
Nel cuore degli apostoli Dio ha preso il posto dell’io, ha distrutto il vanto delle loro opere e dei loro progetti e li spinge a vantarsi solo di lui, non di sé. Ha visto giusto sant’Agostino quando dice che Babele è la città costruita sull’amore di sé, mentre Gerusalemme, cioè la Chiesa, o la città di Dio, è la città costruita sull’amore di Dio.

Se vogliamo fare davvero l’ultimo passo, quello decisivo, verso la «verità», dobbiamo riconoscere umilmente che l’impresa di Babele è ancora in atto e che noi vi siamo tutti, chi più chi meno, coinvolti. Vi sono due soli grandi cantieri aperti nella storia e sta a noi scegliere in quale dei due lavorare. I due racconti di Genesi 11 e di Atti 2 ci dicono anche qual è il diverso risultato delle due imprese: da una parte la confusione e la dispersione, dall’altra la mirabile armonia dei cuori e delle voci; da una parte la rivalità, dall’altra l’unità.
San Paolo raccomanda di «conservare l’unità dello Spirito, mediante il vincolo della pace» (Ef 4,3). L’unità dello Spirito è continuamente da ricreare e rinnovare, perché continuamente insidiata dalle forze «disgregatrici» dell’egoismo e dall’azione di colui che la Scrittura definisce «diavolo», diábolos, cioè colui che divide. Come l’unità è la prerogativa dello Spirito di Dio, così la divisione è la caratteristica dello spirito satanico.
E come fare per rinnovare l’unità ogni volta che è minacciata? San Paolo ce ne rivela il segreto: «mediante il vincolo della pace». Ristabilendo la pace, facendo la pace. Gesù sulla croce ristabilì l’unità – unità tra giudei e gentili, tra Dio e il mondo – facendo la pace e fece la pace distruggendo in se stesso l’inimicizia. Non distruggendo il nemico, ma distruggendo l’inimicizia, che è una cosa tutta diversa. È scritto: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, distruggendo in se stesso l’inimicizia… Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2, 14-18).

Ci ricorda Papa Francesco che l’unità dei cristiani, è «un dono», è «armonia», è «un cammino», è «per la missione». L’unità «è una grazia, un dono». Infatti «il raggiungimento dell’unità non è primariamente un frutto della terra, ma del Cielo; non è anzitutto il risultato del nostro impegno, dei nostri sforzi e dei nostri accordi, ma dell’azione dello Spirito Santo, al quale occorre aprire i cuori con fiducia perché ci conduca sulle vie della piena comunione». L’unità non è «uniformità» e non è nemmeno «il frutto di compromessi o di fragili equilibri diplomatici». Ma «è armonia nella diversità dei carismi suscitati dallo Spirito». Perché lo Spirito Santo «ama suscitare sia la molteplicità sia l’unità, come a Pentecoste, dove le diverse lingue non sono state ridotte a una sola, ma sono state assimilate nella loro pluralità». L’unità «si fa cammino facendo: cresce nella condivisione, passo dopo passo, nella comune disponibilità ad accogliere le gioie e le fatiche del viaggio, nelle sorprese che nascono lungo il percorso». Come scrive san Paolo ai Galati, siamo tenuti a «camminare secondo lo Spirito». O, come dice sant’Ireneo, come “una carovana di fratelli”». «In questa carovana cresce e matura l’unità, che – secondo lo stile di Dio – non arriva come un miracolo improvviso ed eclatante, ma nella condivisione paziente e perseverante di un cammino fatto insieme». L’unità «non è semplicemente fine a sé stessa», ma «è legata alla fecondità dell’annuncio». L’unità è «per la missione». Così infatti, secondo il Vangelo di Giovanni, ha pregato Gesù: «Tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda». A Pentecoste «la Chiesa nasce missionaria». E oggi ancora, «il mondo attende, anche inconsapevolmente, di conoscere il Vangelo di carità, libertà e pace che noi siamo chiamati a testimoniare gli uni insieme agli altri, non gli uni contro gli altri o gli uni lontano dagli altri». «Grazie» per «tutti i semi di amore e di speranza sparsi, in nome del Crocifisso Risorto, in varie regioni ancora segnate, purtroppo, dalla violenza e da conflitti troppo spesso dimenticati».

La Vergine Maria ci guidi, lei che ha accolto lo Spirito Santo come dono, nell’armonia della sua vita pura e santa, come cammino seguendo fedelmente il Cristo da discepola e come missione portandoci l’autore della vita, il Signore Gesù, che vuole che tutti siamo salvati, chiamati alla santità che lo Spirito Santo opera in noi nella rinnovata pentecoste della sua presenza. Amen.

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