Giustizia riparativa: incontro con Agnese Moro, Giovanni Ricci e Maria Grazia Grena

Il tema della giustizia riparativa è stato affrontato da Agnese Moro, Giovanni Ricci (figlio dell’agente di scorta ucciso nel rapimento Moro) e Maria Grazia Grena (ex Prima Linea), nell’ambito della terza edizione di “Racconti sotto le stelle”, il ciclo di incontri promosso dalla Caritas diocesana che permette di vivere l’incontro, ascoltare e condividere storie. Lunedì 12 giugno, nel chiostro della basilica di San Giuseppe da Copertino a Osimo, dopo la bellissima introduzione a cura di due allievi di Zona Musica, gli ospiti hanno raccontato perché è stato indispensabile per loro il cammino della giustizia riparativa che permette l’incontro tra le vittime e i responsabili della lotta armata. Agnese Moro, figlia di Aldo, presidente della Democrazia Cristiana rapito e ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia, ha quindi parlato di questo percorso, che ha intrapreso grazie a padre Guido Bertagna, sacerdote gesuita che da anni si occupa di giustizia riparativa.

«Oggi avete davanti l’esito della giustizia riparativa – ha detto Agnese Moro – mio padre e quello di Giovanni sono stati uccisi dalla Brigate Rosse e accanto a noi c’è Grazia che ha aderito alla lotta armata. Noi dovremmo odiarci, non stare insieme». Agnese ha quindi parlato delle ferite e dei sentimenti che l’hanno accompagnata per tanti anni dopo la morte del padre, difficili da gestire, come il «dolore, la rabbia, l’odio, l’orrore, il disgusto», ma anche il «senso di colpa per non aver riportato il padre a casa», nonostante la famiglia abbia fatto di tutto per salvarlo. Un’altra immagine è stata quella del sangue che l’ha accompagnata ogni volta che pensava al padre. «Per tanto tempo – ha raccontato – ho rinchiuso come in una bolla tutto il dolore, poi però mi sono resa conto che quella non era una soluzione». Dopo 31 anni dalla morte del padre incontra padre Guido Bertagna che le propone di partecipare agli incontri di giustizia riparativa.

«Per la prima volta in 31 anni – ha detto – qualcuno si stava interessando del mio dolore. La giustizia riparativa è fatta di un luogo dove si va volontariamente, liberamente, da cui si esce, se lo si vuole, in qualunque momento. Sono rimasta colpita del fatto che le persone che avevano scontato il loro debito con la giustizia e non dovevano più nulla a nessuno, fossero interessati a questi incontri. Mi sono accorta che anche quelle persone che fino a quel momento avevo considerato dei mostri, provavano un dolore. Con le loro azioni avevano pensato di costruire un mondo diverso, più giusto, e invece si erano poi resi conto che avevano fatte delle cose terribili, ucciso persone che non sarebbero più tornate. Quel loro dolore per me è stato un ponte. Ho ascoltato le loro ragioni e, in questo tentativo di dire e ascoltare, sono nati dei legami, degli affetti, e il desiderio di portare insieme questi inferni. Questo rende tutto differente. Questo percorso di giustizia riparativa mi ha dato tanto, perché ascolta quel silenzio che urla, un silenzio che non si sente ma che c’è».

Maria Grazia Grena che, in passato ha aderito alla lotta armata tra le fila di Prima Linea, per la quale ha scontato diversi anni di carcere, ha parlato di come la giustizia riparativa sia un cammino che «cura le ferite. Dopo 20 anni dal mio fine pena, quando mi ero già dissociata dalla lotta armata e avevo capito che quello che pensavo potesse essere un bene in realtà era stato un male, ho iniziato a fare volontariato in carcere e mi è stato proposto questo percorso di giustizia riparativa. Non è stato facile accettare, perché sarei andata incontro a un riattraversamento di tutto quello che a malapena ero riuscita a mettere apposto. Nel lavoro fatto fino a quel momento, mi ero però accorta che “l’altro difficile” non l’avevo ancora incontrato». Maria Grazia ha spiegato che «l’avvicinamento è durato anni, la giustizia riparativa è lenta ma nel tempo siamo riusciti a guardarci negli occhi. Quello è stato il momento più bello perché non rappresentava il quarto grado del giudizio, loro non volevano giudicarci un’altra volta, ma guardarci negli occhi ed essere guardati negli occhi. Questo percorso oltre a restituirci umanità, ci ha restituito il valore della nostra relazione che è preziosa. Con la giustizia riparativa due persone si riconoscono, si incontrano con pari dignità. La pari dignità è inimmaginabile, ma è ciò che permette l’incontro».

Anche Giovanni Ricci, come Agnese, ha perso il padre, membro della scorta di Aldo Moro, ucciso il 16 marzo 1978 da terroristi delle Brigate Rosse. Ha parlato dei sentimenti di «rabbia e violenza», quiando vide su un quotidiano in seconda pagina «la foto di mio padre crivellato di colpi e senza lenzuolo. Mi distrusse. Questo fatto, insieme a quello di avere un padre che ti è stato tolto non per una malattia, un incidente o qualsiasi altro motivo, ma perché ucciso per mano degli uomini, di terroristi, di uomini malvagi, mi fece sentire non solo diverso dagli altri adolescenti che non avevano più un papà, ma innescò in me un odio e una rabbia immensi verso chi mi aveva tolto il mio dolce padre». Poi è arrivata la proposta di intraprendere il percorso della giustizia riparativa, un cammino «lungo e difficile» in cui ha incontrato gli assassini di suo padre. «La giustizia riparativa – ha detto – mi ha permesso di guardare negli occhi queste persone che consideravo dei mostri e di far loro le domande che ritenevo opportuno. Ho chiesto: “Perché l’hai fatto?”. La giustizia riparativa ti permette di avere delle risposte e di capire che davanti hai delle persone umane che hanno commesso errori e hanno preso le distanze da quello che hanno fatto. Ho capito che chi avevo davanti portava una croce più grande della mia. Con gli anni ci si abitua alla perdita di un genitore, ma loro come vivevano la loro vita dopo quello che avevano fatto?». Al termine della serata, Mons. Angelo Spina ha sottolineato l’importanza «del dialogo e del confronto della giustizia riparativa» e ha ringraziato gli ospiti per la loro testimonianza e la Caritas diocesana per il suo servizio nel carcere di Montacuto, dove ha intrapreso un programma di giustizia riparativa con i detenuti.

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