L’Arcivescovo ha partecipato al 30° Convegno nazionale dei Gruppi di Preghiera di P.Pio

L’Arcivescovo Spina ha partecipato al 30° Convegno Nazionale dei Gruppi di preghiera di P.Pio a San Giovanni Rotondo. Sabato sera ha presieduto la fiaccolata con la statua della Madonna delle Grazie e tenuto una riflessione ai tanti pellegrini. La domenica mattina ha presieduto le lodi e ha tenuto una relazione ai Gruppi di Preghiera provenienti da ogni parte d’Italia. Ha ricevuto una delegazione del Comune di S. Giovanni Rotondo e il Sindaco gli ha offerto una medaglia a ricordo della recente visita di Papa Francesco. Nella chiesa di S. Pio, gremita di fedeli, l’Arcivescovo Spina ha presieduto al celebrazione eucaristica alle 11.30.
Di seguito viene riportato il testo della relazione tenuta al convegno  e quello dell’omelia.
 
 “I giovani oggi, condivisione del cammino di fede”.
Relazione di Mons. Angelo Spina, Arcivescovo-Metropolita di Ancona-Osimo.
Incontro nazionale dei Gruppi di Preghiera di P. Pio. San Giovanni Rotondo, 17 giugno2018.
Carissimi amici, vorrei iniziare questo incontro con qualche citazione.
La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, si burla dell’autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in una stanza, rispondono male ai genitori, in una parola; sono cattivi”…
La citazione è di Socrate, filosofo greco, che visse dal 469 al 399 a.C.
Oggi il padre teme il figlio. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori: i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani, gli anziani per non apparire retrogradi e dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell’uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi
La citazione è tolta dal libro VIII de  “La Repubblica” di Platone, vissuto dal 428 al 347 a.C.
Queste citazioni che vengono da insigni pensatori e da tempi così lontani sembrano essere la fotografia di quello che tanti, oggi, pensano dei giovani.
Ma proviamo a fare una breve riflessione. Per prima cosa  dobbiamo prendere coscienza che siamo assistendo non tanto ad un’epoca che cambia, ma a un cambiamento di epoca.
La rapidità dei processi di cambiamento e di trasformazione è la cifra principale che caratterizza le società e le culture contemporanee. La combinazione tra elevata complessità e rapido mutamento fa sì che ci troviamo in un contesto di fluidità e incertezza mai sperimentato in precedenza (cfr Zygmunt Bauman, Paura liquida, Laterza., Roma-Bari 2008).
Pensiamo al mondo del lavoro, quanti giovani non hanno lavoro e non lavoreranno perché non c’è lavoro. Circa il 40% dei giovani non trovano lavoro, come ci dicono gli ultimi dati ISTAT.  La globalizzazione mette  sempre più a contatto con nuovi mondi e modelli culturali differenti. Le giovani generazioni sono caratterizzate dal rapporto con le moderne tecnologie di comunicazione e con quello che viene chiamato normalmente “mondo virtuale”, ma che ha effetti molto reali. Esso offre possibilità di accesso a una serie di opportunità che le generazioni precedenti non avevano, e al tempo stesso presenta rischi. (Le continue connessioni e le solitudini,  l’ansia dei social, cfr. sms, watsup; inviare un messaggio e stare ad aspettare la risposta). Nel contesto della fluidità e precarietà appena accennati, non si fanno scelte definitive per cui si dice:“Oggi scelgo questo e domani si vedrà…se non va cambio”. Nel mondo affettivo, poi, non si fanno scelte definitive, ma reversibili. Il venire meno della famiglia e la sua frammentazione genera nei giovani una mancanza di radici. Di fronte alle nuove generazioni ci si rende sempre più conto  che c’è una urgenza ed emergenza educativa, come evidenziava Papa Benedetto XVI nella Lettera alla città  e alla Diocesi di Roma sull’urgenza dell’educazione (21 gennaio 2008).
Per tante motivazioni, alcune già accennate, possiamo dire che l’età giovanile si è prolungata nel tempo. Vivere la realtà giovanile è faticoso e impegnativo se pensiamo ai cambiamenti che ci sono tra i 15 e i 25 anni: quello fisiologico, biologico, psicologico, sociale e anche spirituale. Se pensiamo che nell’età evolutiva dell’adolescenza cambia tutto il corpo, ciò che di noi non cambia sono solo gli occhi. In questo processo è importante riuscire a costruire se stessi e capire chi si è e rispondere alle inquietanti domande di senso. E’ l’età dei sogni e dei bisogni. I sogni proiettano verso il futuro, sono la capacità creativa e immaginativa, sprigionano energia. I bisogni in questa età non sono quelli di avere un telefonino, ma di essere accettati, essere aiutati a diventare ciò che si è capaci di essere e questo richiede relazioni da parte degli adulti.
Pensiamo a come vestono i nostri ragazzi. In un incontro con i giovani, vedevo una ragazza che sferruzzava sul ginocchio. A fine incontro mi sono avvicinato e gli ho chiesto se avesse male al ginocchio. No! Fu la risposta.  Vedi padre vescovo, ho tagliato e sfilacciato il jeans, solo che adesso come lo dico a mia madre, questo costa ottanta euro e, adesso che mi vede, comincia. Gli ho posto subito la domanda: ma perché l’hai tagliato così e sfilacciato? Di rimando lei mi ha dato una bella lezione dicendomi: Lei conosce l’artista Fontana e qualche sua opera? Certo, gli ho risposto. Ebbene lui ha fatto una rivoluzione nel campo dell’arte perché ha preso una tela e anziché dipingere e disegnare, vi ha fatto tre tagli. Oggi quella tela con tre tagli è un’opera d’arte e vale milioni di dollari. Io vorrei far capire a mia madre che io valgo più del jeans costoso, che dietro quella stoffa ci sono io. A un incontro successivo l’ho salutata e gli ho chiesto come era andata con sua madre. La risposta: Non ne parliamo. Ma sul ginocchio non c’era più il jeans tagliato e sfilacciato  ma una grassa finestra e il ginocchio tutto scoperto. E lei, vede? Il resto del jeans è una cornice, io sono l’opera d’arte.
Nel libro “Dio è giovane” in cui Papa Francesco viene intervistato a pp.30-31-32-33-33 leggiamo: <<I giovani stanno crescendo in una società sradicata. Intendo una società fatta da persone, da famiglie, che a poco a poco vanno perdendo i loro legami, quel tessuto vitale così importante per sentirci parte gli uni degli altri, partecipi con gli altri di un progetto comune, e comune nel senso più largo della parola…Per questo una delle prime cose a cui dobbiamo pensare come genitori, come famiglie, come pastori, sono gli scenari dove radicarci, dove generare legami, dove far crescere quella rete vitale che ci permette di sentirci a casa. Pe una persona è una terribile alienazione sentire di non avere radici, significa non appartenere a nessuno: non c’è cosa peggiore che sentirsi straniero in casa, senza un principio di identità da condividere con altri esseri umani. Le radici ci rendono meno soli e più completi. Oggi le reti sociali sembrerebbero offrirci questo spazio di connessione con gli altri; il web fa sentire i giovani parte di un unico gruppo. Ma il problema che internet comporta è la sua stessa virtualità: il web lascia i giovani per aria e per questo estremamente volatili… “Quando vediamo dei bei fiori sugli alberi, non dobbiamo dimenticarci che possiamo gioire di questa visione solo grazie alle radici” (Francisco Luis Bernardez poeta argentino). Una via per salvarci penso sia il dialogo, il dialogo dei giovani con gli anziani: un’interazione tra i vecchi e i giovani….C’è un passo della Bibbia (Gl 3,1) che dice:<<I vostri anziani faranno sogni, e diventeranno profeti i vostri figli e le vostre figlie>>. Ma questa società scarta gli uni e gli altri, scarta i giovani così come scarta i vecchi. Eppure al salvezza dei vecchi è dare ai giovani la memoria, questo fa dei vecchi degli autentici sognatori del futuro; mentre la salvezza dei giovani è prendere questi insegnamenti, questi sogni, e portarli avanti nella profezia….Vecchi sognatori e giovani profeti sono la strada di salvezza della nostra società sradicata: due generazioni di sradicati possono salvare tutti>>. Ma in questa intervista il Papa dice che per dialogare ci vuole tenerezza invece succede che persone adulte non vogliono lasciare il posto che occupano. Ci sono troppi genitori, e anche adulti, ma rimasti adolescenti nella testa, che non danno spazio ai giovani.
Il Papa sottolinea che c’è bisogno di alleanza tra le generazioni  e vuole il Sinodo sui giovani. Nello stesso libro a p. 118 dice:<<Mi aspetto che siano loro i protagonisti. Il Sinodo è dei vescovi, ma deve essere al servizio di tutti i giovani, credenti e non credenti. Non bisogna fare differenze che portano ad una chiusura del dialogo: quando dico tutti, intendo tutti. Sei giovane? Puoi parlare, siamo qui per ascoltarti…Credo che questo sia lo spirito giusto per stimolare il dialogo e il confronto positivo>>.
Le nuove generazioni sono per propria natura diverse dalle generazioni precedenti. Questo non significa che abbiano più valore ma nemmeno che ne abbiano di meno. Ogni generazione ha un proprio valore che va riconosciuto, nelle sue specificità, dalle generazioni precedenti e messo nelle condizioni di dar frutto rispetto alle sfide del proprio tempo. Serve quindi un reciproco riconoscimento di valore: le nuove devono riconoscere il valore di quelle che hanno ricevuto, le vecchie devono riconoscere e aiutare a promuovere il nuovo  valore di cui le nuove generazioni sono portatrici.
In un mondo in cui tutto viene misurato in byte, nasce la domanda: Vi è ancora posto per Dio?
Chiediamoci quale è la dimensione della trascendenza, l’orientamento religioso e la pratica dei giovani in Italia?
Di recente è stato pubblicato il volume: “La condizione giovanile in Italia. Rapporto  Giovani 2018. Istituto Giuseppe Toniolo – Il Mulino 2018”.(cfr.pp.211-229 Paola Bignardi).
Il credere in una realtà trascendente o il non credere, il praticare o meno riti della propria credenza sono sempre più frutto della libertà personale. La pratica religiosa e l’appartenenza alla comunità cristiana nella quale avveniva l’iniziazione cristiana e l’educazione religiosa delle nuove generazioni erano esperienze comuni. Oggi l’appartenenza a una religione è sempre più frutto di una scelta personale in un contesto in cui dominano i valori di autorealizzazione e di autoaffermazione in cui il pluralismo, anche religioso, costringe a confrontare di continuo le proprie opzioni con altre anche molto diverse e a dare ad esse motivazioni convincenti e personali. Essere religiosi oggi, in Italia, non è scontato. Da una recente indagine, i giovani che si dichiarano cattolici sono il 52,7%, chi dice di non credere in nessuna religione è il 23%, altri sono indifferenti. La partecipazione alla S. Messa domenicale è bassissima. Armando Matteo ha scritto un libro dal titolo: “La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede- Rubettino 2017”.
Volendo provare a gettare uno sguardo complessivo sul modo con cui i giovani si accostano ai valori religiosi, pare emergano alcune linee di tendenza abbastanza evidenti.
Anzitutto la crisi della religione ricevuta.
Più che essere in crisi la dimensione religiosa, è in crisi l’adesione ad una religione strutturata. I giovani respingono una religione che sia una dottrina, una somma di nozioni astratte ed estranee alla vita; rifiutano i riti di cui non comprendono i significati; si sentono estranei ad una proposta che non sollecita la loro responsabilità, ma solo il loro impegno morale; che non li coinvolge, che non diventa esperienza. Fanno critiche pesanti alla comunità cristiana con cui sono stati in contatto: a volte comunità fredde, senza relazioni, dove raramente hanno incontrato persone significative.
Le testimonianze date da tanti giovani portano a pensare che oggi, più che essere in presenza di un rifiuto della religione, si è in presenza di una trasformazione indirizzata verso una maggiore autenticità e modalità meno formali e più personali della fede. E’ come se si stesse passando da una religione vissuta come punto fermo e immobile ad una religiosità vissuta come ricerca come processo permanente di elaborazione delle domande di senso che si affacciano particolarmente in momenti cruciali della vita.
La sfida della cosiddetta trasmissione della fede è e sarà sempre più nella capacità da parte della comunità cristiana di accogliere e di restare in contatto con presenze transitorie, provvisorie, portatrici più di domande che di certezze.
I giovani sembrano dire che non sono più disponibili ad accogliere una proposta offerta come sistema chiuso di dottrine, regole e riti; il percorso che sembra aprirsi è quello di una fede come processo aperto, in cui ciascuno deve ripercorrere, in modo generativo, i passi che portano verso l’adesione a valori religiosi. In crisi sembra essere l’esperienza religiosa appresa e praticata nell’infanzia, un’esperienza che non ha trovato il punto di aggancio con  le domande sulla vita e sul suo significato.
Papa Francesco costituisce un caso particolare: i giovani avvertono verso la sua persona un fascino che li porta a indicarlo come uno dei punti di riferimento per la loro vita. L’ammirazione che i giovani nutrono nei suoi confronti non è tanto legata al fatto che è il papa, ma al suo modo di essere, di comunicare diretto, sincero, che sa arrivare al cuore delle persone. Un giovane intervistato dopo la GMG a Cracovia diceva: <<Dopo la GMG a Cracovia io ho pianto per una settimana, perché quando il papa parla ti muove proprio tutto, le viscere, tutto, perché va a toccare  quei punti fragili che abbiamo e poi i problemi concreti. Mi è rimasta in mente la frase che ha detto “vivete con le vostre nonne, godetevi i vostri nonni”; è una cosa che non si aspetta sentire da un papa, però è la semplicità più bella che ci sia…E poi quello che secondo me colpisce di più è che è povero, semplice, schietto, e questo forse lo rende più vicino.(cfr La condizione giovanile, o.c.,p.228).
Da quanto detto viene fuori spontanea la domanda e noi, come Gruppi di preghiera, cosa possiamo fare?
Quattro verbi mi sembrano importanti e che vanno messi in atto: ascoltare, provocare, coinvolgersi, accompagnare.
Ascoltare”: i giovani si lasciano coinvolgere da chi li avvicina con rispetto e amore. Vogliono essere ascoltati, senza pregiudizi e senza paure. Vogliono dire la loro e sapere che chi li ascolta è pronto a mettersi in gioco con e per loro, senza ipocrisie e paternalismi. Una Chiesa che ascolta è una Chiesa vicina, amica, attraente e coraggiosa.
Provocare”: i giovani amano chi li sfida a orizzonti più alti, a mete più grandi. Ciò va fatto con umiltà e molto amore. Come dice il termine “pro-vocare”, si provoca se si chiama qualcuno in nome e a favore di un altro: se quest’altro è Cristo annunciato con la parola e l’eloquenza della vita, difficilmente i giovani resteranno indifferenti. Essi non chiedono proposte al ribasso o contrattazioni a buon mercato: ciò che domandano è autenticità, credibilità e impegno d’amore disinteressato in chi li provoca.
Coinvolgersi”: i giovani non vogliono maestri che insegnino dall’alto di una cattedra, ma testimoni che li affianchino o li precedano in maniera convincente, coinvolgendo se stessi in ciò che vivono con e per i giovani. Vale specialmente per i giovani ciò che diceva Paolo VI nella Evangelii nuntiandi al numero 41: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri. E se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Il testimone vive ciò che dice, si coinvolge, precede, accompagna, condivide: la condivisione, che non ignora ma valorizza nella reciprocità le differenze di carismi e di servizi, deve essere lo stile di chiunque si impegni nella pastorale giovanile».
“Accompagnare” stare accanto, non sopra dettando leggi, non sotto lasciando fare con disinteresse e subendo, ma accanto come Gesù con i discepoli di Emmaus dando speranza con parole e gesti, perché ai giovani di oggi non venga rubata la speranza. Molti sono quelli che di fronte ai mali del mondo intraprendono varie forme di militanza e di volontariato e in questo si sentono protagonisti e desiderosi di essere accompagnati. (cf. Evangelii gaudium 106).
Sabato, 17 marzo 2018 sul sagrato della Chiesa di San Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo) nell’omelia il Papa  sottolineava tre parole: preghiera, piccolezza, sapienza.
Parlando della preghiera ha detto:
“San Pio, a cinquant’anni dalla sua andata in Cielo, ci aiuta, perché in eredità ha voluto lasciarci la preghiera. Raccomandava: «Pregate molto, figli miei, pregate sempre, senza mai stancarvi» (Parole al 2° Convegno internazionale dei gruppi di preghiera, 5 maggio 1966).
Gesù nel Vangelo ci mostra anche come si prega. Prima di tutto dice: «Ti rendo lode, Padre»; non incomincia dicendo “ho bisogno di questo e di quello”, ma dicendo «ti rendo lode». Non si conosce il Padre senza aprirsi alla lode, senza dedicare tempo a Lui solo, senza adorare. Quanto abbiamo dimenticato noi la preghiera di adorazione, la preghiera di lode! Dobbiamo riprenderla. Ognuno può domandarsi: come adoro io? Quando adoro io? Quando lodo Dio? Riprendere la preghiera di adorazione e di lode. È il contatto personale, a tu per tu, lo stare in silenzio davanti al Signore il segreto per entrare sempre più in comunione con Lui. La preghiera può nascere come richiesta, anche di pronto intervento, ma matura nella lode e nell’adorazione. Preghiera matura. Allora diventa veramente personale, come per Gesù, che poi dialoga liberamente col Padre: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt 11,26). E allora, nel dialogo libero e fiducioso, la preghiera si carica di tutta la vita e la porta davanti a Dio.
E allora ci domandiamo: le nostre preghiere assomigliano a quella di Gesù o si riducono a saltuarie chiamate di emergenza? “Ho bisogno di questo”, e allora vado subito a pregare. E quando non hai bisogno, cosa fai? Oppure le intendiamo come dei tranquillanti da assumere a dosi regolari, per avere un po’ di sollievo dallo stress? No, la preghiera è un gesto di amore, è stare con Dio e portargli la vita del mondo: è un’indispensabile opera di misericordia spirituale. E se noi non affidiamo i fratelli, le situazioni al Signore, chi lo farà? Chi intercederà, chi si preoccuperà di bussare al cuore di Dio per aprire la porta della misericordia all’umanità bisognosa? Per questo Padre Pio ci ha lasciato i gruppi di preghiera. A loro disse: «E’ la preghiera, questa forza unita di tutte le anime buone, che muove il mondo, che rinnova le coscienze, […] che guarisce gli ammalati, che santifica il lavoro, che eleva l’assistenza sanitaria, che dona la forza morale […], che spande il sorriso e la benedizione di Dio su ogni languore e debolezza» (ibid.). Custodiamo queste parole e chiediamoci ancora: io prego? E quando prego, so lodare, so adorare, so portare la vita mia e di tutta la gente a Dio?”.
Ci aiuti la preghiera nel cammino con i giovani e per i giovani. Grazie!
 
Omelia S. Messa con i Gruppi di preghiera di P.Pio.
Giovanni Rotondo – XI domenica del T.O. – 17 giugno 2018.
Cari fratelli e sorelle,
in questa domenica siamo qui a ringraziare Dio per tutti i suoi benefici, quelli della creazione e quelli della redenzione.
La Parola di Dio ascoltata è luce ai nostri passi e dona tanta gioia ai nostri cuori.
Nella prima lettura, tratta dal profeta Ezechiele, abbiamo ascoltato come il Signore prende un ramoscello dalla cima di un cedro per piantarlo sul monte alto di Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Il profeta pronuncia questo oracolo a Babilonia, quando il popolo d’Israele era in esilio, ridotto a niente e in pochi erano rimasti fedeli alla Legge. Ma per il profeta nulla è perduto, perché anche in situazioni così difficili, Dio agisce e sarà lui a fare nuove le cose.
Nella parabola del Vangelo di oggi, Gesù racconta due brevi storie quella del seme che cresce da solo e quella del piccolo seme di senape che cresce e diventa grande.
Una volta, quando si seminava con le mani, era bello vedere il contadino che, con la bisaccia a tracolla, andava per i campi e a piene mani buttava i semi nei solchi. Insieme al seme gettava nella terra anche la sua speranza di vederlo  attecchire e germogliare in primavera.
Gesù nel vangelo di questa domenica, paragona il regno di Dio proprio a questa immagine di un uomo che getta il seme nel terreno, ma aggiunge: <<Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa>> (Mc 4,26-27).
E’ proprio vero, una volta gettato il seme, avviene qualcosa di silenzioso, ma nello stesso tempo rivoluzionario. L’agricoltore che pianta conosce il processo: il seme gettato, il filo verde che spunta, la foglia che si apre, spiga che si riempie, il grano giunto a maturazione. L’agricoltore sa aspettare, non falcia il grano prima del tempo. Ma non sa come la terra, la pioggia, il sole ed il seme hanno questa forza di far crescere una pianta dal nulla fino a dare frutto. Così è il regno di Dio. E’ un processo, ci sono tappe e momenti di crescita. Tutto avviene nel tempo. Produce frutto al momento giusto, ma nessuno sa spiegare la sua forza misteriosa. Nessuno ne è il padrone! Solo Dio! Il regno di Dio viene non per merito nostro o delle nostre realizzazioni, ma perché agisce la grazia di Dio. La Chiesa vive non perché siamo noi a sostenerla e ad alimentarla, ma perché è opera di Dio
Il Vangelo continua con un’altra immagine suggestiva, quella del granello di senape che è piccolissimo. Gesù dice che il regno di Dio <<E’ come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, una volta seminato cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra>>(Mc 4, 31-32). Da un seme appena percepibile alla vista viene fuori una grande pianta. Come è possibile? Non è l’albero che dà forza al seme, ma è il seme che con la sua potenza vitale si sviluppa in albero. Il segreto è nella opera di colui che  ha creato. Così è il regno di Dio, è fatto di piccole cose, non appariscenti. Il piccolo seme della fede con l’azione di Dio possiede la forza di trasformare il mondo.   Sembra che tutto sia troppo piccolo ai nostri occhi, sembra che i granellini di Dio, sparsi per il mondo, siano inadeguati a confronto con le nostre attese e le nostre smanie di grandezza. C’è poi l’impazienza che ci morde dentro e non ci consente di attendere che il seme germogli e cresca. Dio vede il nostro tempo in chiave di eternità e quindi lo scandisce secondo un suo piano inscrutabile. Non ci è dato di conoscere neanche il tempo della mietitura o della raccolta dei frutti. Ci sfuggono perfino i criteri per valutare la crescita del Regno. Neanche le misure di Dio corrispondono alle nostre. Tutto questo però non significa che Egli ci voglia lasciare completamente al buio: il suo piano universale di salvezza ci riguarda direttamente e la crescita del seme significa per noi l’incarnazione nel tempo e in ciascuno di quel progetto. Ci dona perciò la fede, che dobbiamo alimentare con le altre virtù cristiane, specialmente con l’umiltà e la purezza del cuore. Solo così possiamo arrivare ad accogliere con una accettazione piena ed incondizionata i progetti divini, senza la pretesa, assurda per la pochezza dei nostri occhi, di volerli misurare con i nostri criteri umani. È proprio nei confronti di Dio che sperimentiamo i grandi guasti derivanti dalla superbia e le meraviglie che sgorgano dall’umiltà. I fasti e le glorie dei regni umani hanno le loro storie e rivelano la loro caducità. Il regno di Dio, proprio perché silenzioso e umile, piccolo e nascosto, si rivela infine in tutta la sua grandiosità con i prodigi che opera nella nostra storia.
Il piccolo seme della fede con l’azione di Dio possiede la forza di trasformare il mondo. Chi crede, vive lo spirito delle beatitudini, diventa sale, luce, fermento di Cristo e del regno nella storia. Figure semplici, umili, docili, pacifiche hanno rinnovato, positivamente il mondo. Pensiamo a S. Pio, il suo nascondimento, la sua umiltà, la sua semplicità, il suo sacrificio, la sua preghiera, sembravano segni insignificanti, ma oggi noi ne vediamo la grandezza e la potenza di Dio. Appare chiaro allora che la forza del Regno, la forza del Vangelo non è misurabile con i criteri mondani ma è opera di Dio a cui diciamo con cuore grato: Grazie, Signore!. Amen.