30 anni della nuova chiesa parrocchia S. Maria Liberatrice

Sono trascorsi 30 anni dalla inaugurazione della nuova chiesa della parrocchia di S. Maria Liberatrice in Ancona. Il parroco, don Fausto, e la Comunità parrocchiale hanno voluto ricordare l’evento con una celebrazione presieduta dall’Arcivescovo. Durante la liturgia della Parola è stata elevata al Signore la preghiera di ringraziamento per quanto è stato fatto in trenta anni, portando all’altare dei ceri accesi e dei cubi, con sopra scritti gli eventi vissuti, a formare una costruzione. Interessante anche la mostra allestita con foto e scritte che hanno fatto ripercorrere il tempo trascorso. Tanti sono stati i fedeli che hanno partecipato.  Al termine della celebrazione, sul piazzale, la comunità ha condiviso nella gioia un momento di agape fraterna. La riflessione sul testo di Matteo: “Beati i poveri in spirito” è stata tenuta dall’Arcivescovo. Di seguito viene riportato il testo:
“Quando leggiamo la prima beatitudine, “beati i poveri”, in Matteo troviamo “Beati i poveri in spirito”, mentre in Luca troviamo: “Beati voi poveri”. Sono sfumature degli evangelisti. Luca accentua la portata anche sociale del termine, Matteo che ha un intento catechetico, si premura di esplicitare il senso religioso. In entrambi i casi il riscatto della povertà viene dal regno di Dio, ma nel primo caso suppone una disposizione che è nell’uomo, nel secondo solo l’esigenza di Dio verso se stesso. Ci troviamo di fronte a due categorie: meriti e virtù. La beatitudine evangelica: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” va letta alla luce del binomio grazie-fede. “Per grazia siete stati salvati, mediante la fede” (Ef 2,8). Il Regno rappresenta, nella beatitudine, l’offerta di grazia, la povertà in spirito, la risposta di fede. E’ come se Gesù dicesse: Beati voi poveri “perché avete creduto”; oppure: beati voi se “crederete”. La fede è sullo sfondo di ogni discorso di Gesù. Bisogna allora unire ciò che dice Matteo e ciò che dice Luca e non contrapporli.
Gesù Cristo è povero. San Paolo scrive: “Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Il senso è: Cristo, essendo (nella posizione di) ricco, si fece povero materialmente per arricchire noi spiritualmente. Non venne infatti a rendere gli uomini più ricchi di beni terreni, ma a farli figli di Dio ed eredi della vita eterna.
Gesù Cristo volle vivere ed essere povero di tutte le cose temporali di questo mondo. Non volle per sé una casa, né un terreno, né una vigna, né alcuna proprietà né soldi né fondi.
Fu povero. Ebbe fame, sete, patì il caldo e il freddo, la fatica, ogni privazione e bisogno. Non dispose di cose raffinate e di pregio. La seconda povertà fu che volle essere povero nei parenti e negli amici. La terza povertà fu che volle spogliarsi di se stesso, volle farsi povero della sua stessa forza divina, della sua sapienza e della sua gloria. (cf Il libro della beata Angela da Foligno, Quaracchi, Grottaferrata 1985, pp. 642 s).
Povero dunque di cose, povero di appoggi, povero di prestigio. In Cristo brilla la povertà nella sua forma più sublime che non è quella di essere povero, ma quella di farsi povero, e farsi povero per amore, per fare ricchi gli altri.
Dai vangeli apprendiamo che Gesù poi non era poverissimo in quanto, come artigiano aveva un lavoro in proprio e guadagnava per vivere nella bottega di Giuseppe, c’erano delle persone che lo aiutavano insieme agli apostoli con i loro beni, non disdegnava di pranzare con pubblicani e con farisei. Aveva la tunica cucita tutta di un pezzo. La sua perfezione non si misura sul grado di povertà ma dell’amore.
Ciò che dà valore religioso alla povertà è il motivo per cui viene scelta, e nel caso di Cristo il motivo è l’amore: “Si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9).
Con la venuta di Cristo si registra un salto di qualità in tema di povertà. L’Antico Testamento ci presenta un Dio “per i poveri”, il Nuovo Testamento un Dio che si fa lui stesso, “povero”.
Ciascuno di noi è chiamato ad essere felice, beato, e Gesù dice che saremo beati, felici, se saremo poveri. Ci chiediamo perché Cristo ha introdotto nel mondo l’ideale di una povertà volontaria? Gesù rimanda al regno. La povertà è profetica perché, con l’esempio di distacco dai beni terreni, proclama silenziosamente, ma efficacemente, che esiste un altro bene; ricorda che passa la scena di questo mondo, che non abbiamo quaggiù dimora permanente, ma che la nostra patria è il cielo. Il cristiano non ha quaggiù cittadinanza stabile, appartiene a un’altra città: per questo è un controsenso che si attacchi ai beni del tempo presente che dovrà lasciare da un momento all’altro.
Il mercoledì delle ceneri, ricevendo le ceneri sul campo, il sacerdote ci ha detto: “Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai”, una espressione forte per dirci che quando siamo venuti al mondo siamo venuti senza niente e quando lasciamo questo mondo, con noi, non portiamo nulla. Segno che il tesoro della nostra vita non è di quaggiù.
La parabola del vangelo di Luca (Lc12,13-21) descrive l’uomo che fa consistere la propria sicurezza nell’accumulo dei beni. Il problema suscitato da “un tale della folla” sarà occasione per Gesù per dare un insegnamento ai discepoli che, come tutti gli uomini, sono vittime dello stesso male. La questione è dividere l’eredità. Si vede subito l’attaccamento alle cose. Il litigio per l’eredità è l’emblema della situazione umana: dimenticando Dio Padre, gli uomini litigano per arraffarsi la roba. L’avere di più è il primo tentativo maldestro di salvarsi suggerito dalla paura della morte. Le cose diventano più importanti di Dio e delle persone, addirittura del fratello, è un a-teismo pratico e un a-umanesimo, che porta fuori strada.
La parabola parlando dell’uomo ricco mette in evidenza quattro possessivi: Frutti miei, granai miei, beni miei, vita mia. Ma l’uomo della parabola, avendo a disposizione tanti beni, si pone una domanda: Che farò di questi beni? Ecco la domanda su cui poi decidere.  Cosa decide il ricco? Ammassare, capitalizzare e poi riposare, mangiare, bere, godere. Ma c’è la resa dei conti: arriva la morte nella notte a cui segue l’interrogativo: E quello che hai preparato di chi sarà? Chi cerca di avere di più, dovrà lasciare tutto perché con sé non può portare nulla. E come ci si può arricchire davanti a Dio? Ci si arricchisce donando e non possedendo. I beni del mondo danno la morte in quanto accumulati per paura della morte, ma possono dare la vita se condivisi con i fratelli per amore del Padre.
Da questa parabola ricaviamo che l’uomo mosso dalla paura della morte, la prima cosa che fa per salvarsi è garantirsi la soddisfazione dei bisogni primari e far dipendere la vita da ciò che ha, invece da ciò che è. E’ figlio di Dio e non deve sostituire il Padre con le cose che gli dà. E’ meglio dare in elemosina che mettere da parte oro (Tb12,8). Questa ci dà il nostro vero tesoro (Lc 16,11): essere come colui che è dono per tutti.
Ecco la grandezza delle beatitudine di Gesù: beati i poveri in spirito perché di essi è il regno di Dio. Saremo beati se abbiamo come tesoro Dio, il suo regno, la sua amicizia, la sua presenza tra noi che ci fa scoprire come fratelli che condividono e non dividono che non ammassano sulla terra perché il tesoro è il cielo”.