“Sorella morte”, così la chiamava San Francesco

Riflessione dell’Arcivescovo nella ricorrenza della commemorazione dei defunti

Suscita sempre una forte commozione vedere le tante persone che il due novembre, giornata della commemorazione dei defunti, illuminano i cimiteri con ceri e li rendono un luogo di primavera con vasi di fiori e di crisantemi, nonostante ci sia già il buio e il freddo del mese di novembre.
Nel cuore umano si intrecciano così i ricordi, i sentimenti, i pensieri in riferimento con chi è “al di là” e con chi è “al di qua”. Ogni essere umano porta dentro di sé “il senso dell’eterno” come ci ricorda il libro del Qohelet: <<Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine>>. (Ec 3,11).
L’esperienza però ci fa constatare l’inesorabile presenza della morte che contrasta con il desiderio di vivere. La morte continua ad avere l’ultima parola su di noi, almeno nella realtà visibile, una meta che ci attende: è l’unica direzione (senso) della vita che non possiamo mutare, perché sempre la vita va verso la morte.
Quando al catechismo ci venivano insegnati i novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso ci veniva dato anche un consiglio spirituale, quello di prepararsi all’evento finale, di esercitarsi a morire, non in una visione doloristica e funerea, ma come incontro con il volto di Dio, tanto cercato in vita.
Per un cristiano la morte non deve essere un evento passivo, ma deve diventare un atto consapevole. Nella fede occorre poter dire al Signore: “Padre, quella vita che tu mi hai dato e per la quale ti ringrazio, te la rendo puntualmente, te la offro in sacrificio vivente (cf. Rm 12,1), sperando solo nella tua misericordia”. In tal modo la morte diventa un atto, e così si muore nell’obbedienza dicendo nel proprio cuore: “Parto, vado al Padre, nel nome del Padre che mi ha creato, nel nome del Figlio che mi ha redento, nel nome dello Spirito santo che mi ha santificato”. La vita è un dono di Dio, anzi è il dono di Dio per eccellenza, e questo dono va riconosciuto e ridato a colui che ci è Padre.
Nessuno di noi può prevedere la propria morte, se improvvisa o dopo una lunga malattia, se nella pace e nella dolcezza di chi muore senza gravi sofferenze fisiche. Non è un caso che nella preghiera più semplice e più conosciuta tra i cattolici, l’Ave Maria, si chiede: “Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”. Pensare di avere chi nella morte intercede per noi come una madre e intercede presso il Cristo che incontriamo è un buon esercizio per sentire la morte come sorella e lodare Dio “per sora nostra morte corporale” che ci spalanca la porta alla vita eterna, all’Amore più grande e più forte. Cristo con la Sua risurrezione ha vinto la morte. Andare al cimitero, visitare le tombe delle persone amate è l’occasione per fare la professione di fede che l’Amore di Dio è eterno, non finisce mai e la morte è “una sorella” che ci prende per mano e ci porta a Lui, unico e sommo bene.

+ Angelo, Arcivescovo