Lectio divina dell’Arcivescovo

Quaresima 2022

Nel periodo di Quaresima l’Arcivescovo ha tenuto la Lectio Divina alla cattedrale di S. Ciriaco ad Ancona, il venerdì sera alle ore 21.00, e al santuario di S. Giuseppe da Copertino ad Osimo, il martedì alle ore 19.00. Di seguito vengono riportate alcune Lectio.

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TESTI INTEGRALI

Prima Lectio Divina

Vangelo secondo Matteo 4,3-4:

“Il tentatore  gli si avvicinò e gli disse: <<Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane>>. Ma egli rispose <<Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio>>”.

Il tempo quaresimale ci aiuta ad entrare come Gesù nel deserto che spesso viviamo, ma ci sono modi e modi per viverlo e non subirlo. È necessario farsi condurre dallo Spirito. È proprio nel deserto, luogo solitario, che Dio ci rieduca all’ascolto. Ascoltare è più che sentire. Zenone di Cizio (334-263), filosofo greco, scriveva:<<La ragione per cui abbiamo due orecchie e una sola bocca è che dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno>>, in poche parole, ascoltare il doppio e parlare la metà.

Il deserto come la vita è il luogo delle tentazioni, un termine che non viene più tanto usato, perché ormai tutto è lecito, tutto è normale. Attenzione però, il termine tentazione non ha valenza negativa, tentare nel linguaggio biblico ha un duplice significato: «mettere alla prova, saggiare» e «far deviare dalla retta via». Lo Spirito non ci evita la prova, anzi, ce la fa affrontare. Molto belle le parole che troviamo nel libro del Siracide (2,1): “Figlio se ti presenti a servire il Signore, preparati alla tentazione”.

Una volta che scegliamo ciò che è buono, che diciamo il nostro si, c’è la difficoltà di portare avanti la nostra scelta. Penso alla vita religiosa e sacerdotale, alla vita matrimoniale, ma anche ad altre scelte buone che facciamo per la nostra edificazione e quella dei fratelli. Si è tentati quando si segue la retta via, quando si compie il bene.

Leggiamo nel Vangelo di Matteo al capito quarto dal versetto tre e quattro:<<Ora il tentatore, accostandosi, gli disse: «Se tu sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli, rispondendo, disse: «Sta scritto: “L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”>>. Il pane è necessario per vivere, senza il quale si va incontro alla morte. Mangiare non è un optional, è una necessità, se non si mangia, prima si dimagrisce, poi si deperisce e poi si muore. Quando non si mangia lo stomaco si ribella, morde, si sentono i morsi della fame.

L’esperienza raccontata nel libro dell’Esodo (Es 16,2-3) è chiara:<< Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».

La grande mormorazione, il grande disappunto: moriamo di fame. E’ l’esperienza del nostro tempo. Gran parte dell’umanità soffre la fame, muore di fame. Dio nel deserto sfamò il suo popolo con un cibo che neanche conoscevano detto “manhu”, che tradotto significa: che cosa è questo? Lo sfamò per lungo tempo.

Nei vangeli sinottici (Mt 14,13-21; Mc. 6,34-44; Lc. 9,11-17; Gv 6,1-14)) vediamo come Gesù si interessa della folla, che a fine giornata ha fame.  Dopo aver ascoltato durante il giorno la parola di Gesù,  i discepoli dicono di rimandare via tutti a  casa, prima che arrivi la sera. Gesù non manda via nessuno, ma invita i discepoli a dare  da mangiare alla gente. Dopo aver spezzato la parola, invita i discepoli a dare da mangiare.

Leggiamo nel Vangelo di Giovanni (6,1-14):<<Uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro, gli disse: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per così tanta gente?»  Gesù disse: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. La gente dunque si sedette, ed erano circa cinquemila uomini. Gesù quindi prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì alla gente seduta; lo stesso fece dei pesci, quanti ne vollero. Quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché niente si perda». Essi quindi li raccolsero, e riempirono dodici ceste con i pezzi dei cinque pani d’orzo che erano avanzati a quelli che avevano mangiato>>. Questa pagina di Vangelo è bellissima. Ci presenta un ragazzo che ha i pani e i pesci, la mamma gli aveva preparato una abbondante colazione e cosa succede? Quel ragazzo ha ascoltato sicuramente con attenzione le parole dette da Gesù durante l’insegnamento, e solo dopo l’ascolto, mette a disposizione i suoi cinque pani e i due pesci.

La moltiplicazione dei pani non è un bel racconto del miracolo di Gesù per sfamare la gente. Il vero miracolo non è quello della “moltiplicazione” dei pani, ma quello della “condivisione” dei pani. Infatti, appena si presenta il problema del mangiare, i discepoli non sanno cosa fare perché hanno solo “cinque pani e due pesci”, ed allora cercano di “scansarlo” e si rivolgono a Gesù dicendo: «Mandali via perché possano andare a cercarsi da mangiare». La loro logica è quella del “ognuno si arrangi” e quindi non resta che mandarli via e che vadano a comperarsi da mangiare. La logica di Gesù invece è quella di creare comunità, di imparare a condividere non solo i sogni, i progetti, ma anche il pane, quello che si ha. Gesù istituisce il ministero del “prendersi cura”. Bisogna dare del proprio: quello che si ha, quello che si è. C’erano soltanto cinque pani e due pesci. Eppure: «Tutti mangiarono a sazietà».  Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato. Alla fine, sul nostro conto, troveremo solo ciò che avremo condiviso con gli altri.

Di fronte a certi dati drammatici sulla fame, sulle tragedie delle guerre che non finiscono mai, sentiamo la nostra impotenza. Diciamo: ma che cosa posso fare io? Anche noi come i discepoli siamo tentati di dire: Dio perché non fai un miracolo? E Dio risponde anche a noi: “date voi stessi da mangiare”. Dio chiede la nostra collaborazione. Dio non si sostituisce ai nostri doveri, alle nostre responsabilità.  Ma ricordiamoci che non c’è fame soltanto di pane, non c’è solo bisogno solo di cose.

Ritornando all’All’antico Testamento, nel libro del Deuteronomio  leggiamo: «[Il Signore] ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore » (Dt 8,3).

Gesù riprende queste parole mentre si trova nel deserto, assalito dalla fame dopo quaranta giorni di digiuno, ed è tentato di ricorrere al miracolo di trasformare in pane i sassi che stanno davanti a lui. Ma a satana,  al divisore egli risponde: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (Mt 4,4; cf. Lc 4,4).

Il pane è necessario per vivere, ma all’uomo non basta. C’è infatti nell’uomo una fame, un desiderio, una ricerca che non si ferma al cibo: il cibo è assolutamente necessario, ma non è sufficiente perché un uomo si umanizzi. L’uomo ha fame di verità, di giustizia, di amore, di pace, di bellezza; ma, soprattutto, fame di Dio. «Noi dobbiamo essere affamati di Dio», dice Sant’Agostino. È Dio che ci dà il vero pane. E questo pane, di cui abbiamo bisogno, è Cristo, che ancora oggi ci ripete: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». Il pane di cui abbiamo bisogno è la Parola di Dio, che ci dice: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Dobbiamo metterci continuamente in religioso ascolto della Parola di Dio; prenderla come criterio del nostro modo di pensare e di agire; conoscerla con la lettura personale e la meditazione; ma, specialmente, dobbiamo farla nostra, realizzarla giorno dopo giorno, in ogni nostro comportamento.

Scrive Antoine de Saint-Exupéry: «C’è un solo problema, uno solo per il mondo: ridare agli uomini un significato spirituale, inquietudini spirituali… Non si può vivere di frigoriferi, di bilanci, di politica, di parole crociate. Non si può più. Non si può più vivere senza poesia, senza calore né amore».

Gesù, tentato da satana nel deserto,  respinge la tentazione con la Parola di Dio. Come Israele si era fidato di Dio, così anche il Messia non doveva forse confidare solo in Dio? Se Dio lo aveva condotto nel deserto, non avrebbe Dio stesso provveduto a saziare la sua fame? La parola onnipotente di Dio può certamente trasformare le pietre in pane, ma Dio premia la fiducia in maniera più provvida. Così avviene in forme diverse nella nostra vita e così avverrà sempre. Gesù, nuovo e fedele Israele, rivive le medesime tentazioni: “Di’ che questi sassi diventino pane”; ma sceglie non di fermarsi alla preoccupazione del solo pane materiale, ma di aprirsi alla parola di Dio: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Altrove dirà: “Mio cibo è fare la volontà del Padre mio” (Gv 4,34).

Anche noi siamo continuamente tentati di rinchiuderci alla sola ricerca del benessere materiale e del consumismo e riporre nella salute del corpo, nello sviluppo economico e tecnico tutta la nostra attesa e la nostra sicurezza. Ma – ricorda il Signore – ben più grande è la tua fame, o uomo, ben più profondo è il tuo bisogno interiore, e quindi ben più alta è la tua riuscita e soddisfazione. Apriti a Dio, alla sua Parola, al suo disegno, perché sei fatto per Dio, per il cielo, non per la terra. “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (sant’Agostino).

La tentazione che il maligno sferra a Gesù è subdola perché sovverte l’ordine delle cose: mettere Dio all’ultimo posto, in secondo ordine. Oggi facciamo questa esperienza che gli uomini hanno voluto trasformare i sassi in pane, ma hanno dato pietre al posto di pane, cioè sfruttamento, ingiustizie e guerre, proprio in nome del pane. Gesù mette ordine nelle cose, il primo posto spetta a Dio: <<Sta scritto: “non di solo pane vive l’uomo”>>. E’ necessario riconoscere Dio, senza il quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna consa può diventare buona. E la bontà del cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene. In questo modo dobbiamo opporci alle illusioni di false filosofie e riconoscere che non viviamo solo di pane, ma anzitutto dell’obbedienza alla Parola di Dio. E’ solo dove si vive questa obbedienza nascono e crescono quei sentimenti che permettono di procurare anche pane per tutti.

Nella vita ci si può nutrire in due modi: della Parola di Dio  o di quella di satana. Dio è verità, satana è menzogna. La parola   “diavolo” significa colui che separa, colui che divide e lui cerca in ogni modo di dividere l’uomo da Dio e gli uomini tra di loro. Quando non si ascolta la Parola di Dio le parole umane diventano babele. E il pane viene trasformato il pietre contro gli altri. Quando si ascolta la Parola di Dio, il Logos, allora nasce il dialogos, la comunicazione vera, fatta di profondità e di senso. Senza la Parola di Dio siamo senza orientamento, senza fondo, senza meta, senza niente. Dobbiamo metterci continuamente in religioso ascolto della Parola di Dio; prenderla come criterio del nostro modo di pensare e di agire; conoscerla con la lettura personale e la meditazione; ma, specialmente, dobbiamo farla nostra, realizzarla giorno dopo giorno, in ogni nostro comportamento. Gesù dice a ciascuno di noi:<<Beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica>>. Un giorno Gesù pose una domanda agli apostoli:<<Volete andarvene anche voi?>>. Pietro rispose: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Pietro non dice: dove andremo, ma da chi andremo. Come a dire con sant’Alfonzo Maria dè Liguori in dialetto napoletano: << S’ pò campà senza sapé pecché ma nun s’ pò canpà senza sapé pe’ chi>> (Si può vivere senza sapere il perché, non non senza sapere per chi).

Quando La parola di Dio diventa lampada ai nostri passi, quando Dio viene messo al di sopra di tutto, l’uomo trova la sua ragione di vivere. La presunzione, che vuole fare di Dio un oggetto e imporgli le nostre condizioni sperimentali di laboratorio, non può trovare Dio. Infatti si pone sul presupposto che noi neghiamo Dio in quanto Dio, perché ci poniamo al di sopra di Lui. Perché mettiamo da parte l’intera dimensione dell’amore, dell’ascolto interiore, e riconosciamo come reale solo ciò che è sperimentabile, ciò che ci è posto nelle mani. Chi la pensa in questo modo fa di se stesso Dio e degrada così facendo non solo Dio, ma il mondo e se stesso.

Ci ricorda Gesù: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».

Siamo felici se ci nutriamo della Parola di Dio che ci rende umani, belli, forti. Che ci aiuta a non far diventare pietre il pane che abbiamo, a farlo rimanere solo materiale, ma ci aiuta a dargli una dimensione alta, spirituale, con un amore che parte da dentro e lo fa spezzare per donarlo e condividerlo con gli altri.

Vinciamo ogni tentazione, cerchiamo ogni giorno Colui che, solo, può soddisfare il nostro desiderio: cerchiamo Cristo! Camminiamo verso Cristo e avremo la vita, quella vera, quella che mai finisce, perché lui è Parola e Pane di vita eterna.


Seconda Lectio Divina

Due ciechi e un sordomuto (Matteo 9,27-34)

<<27 Mentre Gesù si allontanava di là, due ciechi lo seguivano urlando: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi». 28 Entrato in casa, i ciechi gli si accostarono, e Gesù disse loro: «Credete voi che io possa fare questo?». Gli risposero: «Sì, o Signore!». 29 Allora toccò loro gli occhi e disse: «Sia fatto a voi secondo la vostra fede». 30 E si aprirono loro gli occhi. Quindi Gesù li ammonì dicendo: «Badate che nessuno lo sappia!». 31 Ma essi, appena usciti, ne sparsero la fama in tutta quella regione.
32 Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. 33 Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». 34 Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni»>>.

In questo brano l’evangelista Matteo ci presenta due miracoli particolari: quello della guarigione di due ciechi e, subito dopo, di un muto indemoniato. Nei vangeli sono diversi i ciechi che vengono guariti da Gesù, Bartimeo a Gerico, a Betsaida il cieco che prende per mano, a Gerusalemme impasta del fango con la saliva per metterlo sugli occhi del cieco e guarirlo. La cecità così diffusa poteva essere causata da una cataratta, che rende opaco il cristallino, dal glaucoma, danno progressivo del nervo ottico, ma anche dalla esposizione ai forti raggi solari o dalla polvere di sabbia.

Rileggiamo il versetto 27:<<Mentre Gesù passa di lì due ciechi lo seguivano urlando: Figlio di Davide abbi pietà di noi>>.

Comunemente noi diciamo che la mancanza della vista affina gli altri sensi. Nonostante sono ciechi seguono Gesù, senza vedere vengono guidati dalla sua voce, dal rumore dei suoi passi, dalla gente che lo segue. Si dice che Gesù passa di lì: non si sa dove sia lì; questo lì è qui, è un luogo qualunque, è quel luogo, ed è quel luogo dove si trova il lettore, se vuole. Il luogo e il nome dei miracolati non viene detto, è anonimo; ognuno deve prestare il suo nome: Gesù passa di qui, come è passato di lì. E ci sono due ciechi che lo seguono, prima di vedere. Com è possibile che lo seguano, se sono ciechi? Può un cieco accompagnare un altro cieco innanzitutto? Anche il cieco può seguire il Signore. Anche noi siamo sostanzialmente ciechi su tante cose, non siamo venuti alla luce della verità, eppure abbiamo quell’affetto per Lui che ce lo fa seguire, perché se non lo segui non sei guarito. Il seguirlo è già il principio della guarigione. È proprio chi lo segue, chi fa il suo stesso cammino che viene progressivamente guarito. Perciò sono l’immagine del discepolo, anzi dei discepoli che seguono Gesù pur essendo ciechi, poco alla volta, gradualmente, saranno illuminati.

Perché se io aspettassi di essere illuminato, bello, bravo e buono per seguire il Signore, non lo seguirei mai. Invece lo seguo così come sono, nella mia cecità, nella mia meschinità, nelle mie chiusure: lo seguo. Ed è il primo gesto di illuminazione, perché seguirlo è gesto di amore e di fiducia. E l’illuminazione è il compimento di questo amore, di questa fiducia. Poi si parla di ciechi e il cieco è uno per cui tutto è tenebra, tutto è scuro, non è ancora venuto alla luce. La realtà sa che c’è perché vi sbatte contro e gli fa male. E rappresenta un po’ il nostro modo di vivere a questo mondo: viviamo al buio, non comprendiamo il senso della realtà, delle cose, perché questo, perché quello, eppure sono cose che ci sono e ci sbattiamo contro e ci fanno male. Basta aprire gli occhi e poi si vede che quella è una sedia e ti puoi sedere, quella è una brocca d’acqua non occorre rovesciarla, la puoi bere. Non abbiamo capito il senso delle cose che ci sono e della nostra vita in questo mondo. E uno che non capisce il senso non è ancora nato come uomo. Non è nato alla vita, perché la vita per lui è il non senso, la non vita.

La luce è più che un simbolo di Dio, la luce è il principio della creazione, fa vedere le cose, ma le fa essere per quel che sono, è calore, è vita, è simbolo di amore, la luce riassume tutto ciò che c’è di positivo nel mondo. Per colui che non vede tutto è negativo, tutto è nero. E i ciechi sono due. Qui siamo noi due. Se notate negli altri Vangeli è uno solo, in Matteo ne sono due. Perché due? Il secondo è il lettore. Perché quel miracolo non è avvenuto solo una volta; è avvenuto una volta e chi lo racconta dice: c’è qui un altro cieco insieme, sono io! Perché il lettore è sempre direttamente coinvolto nel racconto. Nel racconto c’è Gesù colui che fa e il lettore è colui che entra in azione attraverso l’altro con cui Gesù agisce. C’è quel cieco a cui Gesù fa il dono della vista e a me fa la stessa cose; per questo si legge il Vangelo. Perché quello che è raccontato, ricordato da chi l’ha sperimentato diventi anche esperienza di chi legge, se no non ha senso raccontarlo.

E questi ciechi gridano, urlano. Questo grido e questo urlo è la forma fondamentale di preghiera. <<Abbi pietà!>>, ma non dei nostri peccati, bensì dei nostri occhi spenti.

La preghiera progredisce, evolve e si sviluppa in un seguito di sentimenti, forse anche di pensieri calmi e ben articolati, ma inizia con un grido, che solitamente è di lamento. E però questo grido scuote il Signore. Nel cap. 2 dell’Esodo si dice: gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza, Dio guardò la condizione degli Israeliti. Questo suggerisce che il nostro grido quasi sveglia Dio, lo rende attento, capace di vedere, di guardare. Questi gridano, urlano. E la scena è anche molto efficace in questa notte. I ciechi vivono nella notte, lanciano questo grido che lacera la notte e saranno illuminati. Richiama anche il grido di chi nasce.

Già il gridare è nascita; è il principio della luce il gridare a Dio, perché è stabilire la relazione con Lui, è lì il principio della luce.

<<27bFiglio di Davide, abbi pietà di noi!>>. Questi ciechi vedono molto. Vedono che Gesù è Figlio di Davide, cioè è colui che realizza le promesse di Dio e vedono che lui è pietà, è amore, tenerezza, è compassione. E non solo tenerezza e compassione in generale: lo è per noi, per me. Praticamente in questo grido c’è già la visione della fede. Quello che ho davanti compie le promesse di Dio, perché lui è la misericordia di Dio per me. E di fatti, se noterete adesso, tutto il miracolo si svolge su questo tema della fede. Cioè è un esame della fede la visione.
<<28Giunto in casa, i ciechi gli si fecero avanti e Gesù disse loro: Credete voi che io possa fare questo? E gli risposero: sì, o Signore>>.

Il miracolo – è un particolare di Matteo – avviene in casa. Per vivere ci sono necessarie pochissime cose: un po’ di pane, un po’ d’affetto e un luogo dove sentirci a casa. Casa è dove qualcuno ti attende e si prende cura di te; dove se uno ti guarda, ti guarda davvero; dove se qualcuno ti tocca, ti tocca davvero; dove impari a vedere gli altri con gli occhi con cui li vede Dio. Quella casa Gesù la frequenta, la conosce, sa le sue porte aperte, emana ospitalità, invita a varcare la soglia, come appunto fanno i due ciechi che vi irrompono trascinati dalla corrente di vita che scorreva con Gesù.

La casa è il simbolo della Chiesa, cioè il miracolo della fede dell’illuminazione avviene nella comunità. Perché la fede, l’illuminazione consiste nel capire che siamo figli e ciascuno di noi può capire che è figlio mediante i fratelli.

Il miracolo è mirato non a che uno veda delle cose, ma che veda delle persone, che scorga in loro i fratelli, figli dello stesso padre. Vede gente di casa sua. Normalmente noi cosa vediamo nell’altro? Vediamo l’estraneo, il concorrente, lo scocciatore, il nemico… questo è quello che vediamo nell’altro. Siamo ciechi. Siamo ciechi sulla nostra realtà di fratelli suoi. Quindi è importante questa casa, dove ci si avvicina a Gesù e Gesù domanda: credete che io possa fare questo? Il problema non è se lui può farlo o non può farlo, il problema è se io credo. Il problema non è di chi è Dio, il problema è del mio rapporto con lui. Ed è la fiducia che io ho in Lui. Quindi è interessante: il miracolo lo fa la nostra fede, perché è la nostra fede che è illuminazione, cioè ci fa capire chi è Dio. Avendo per immagine il Signore, chiede che noi diamo via libera, come a un semaforo, facciamo scattare il verde, ci si muova. Dipende da noi. Se non diamo la via libera, se non facciamo scattare il verde, lo immobilizziamo. Qui sta un po’ la nostra onnipotenza, negativa o positiva. Praticamente la fede è la comunione con lui e coi fratelli e può essere fatta solo dalla nostra libertà. E la fede è questo grande gesto di libertà di entrare in relazione positiva con lui e con gli altri. E se non ho questa fede non avviene nessun miracolo, qualunque cosa avvenga, anche se resuscita un morto: che importa risuscitare un morto, questo muore ancora. Ciò che importa è davvero questa percezione della vita nuova, avere occhi nuovi per vedere che questa realtà è divina. In questa realtà è presente il Signore, in me e negli altri. È vedere la realtà, al di là delle nostre menzogne. Per questo è lungo l’esame della fede. Perché il problema è avere questa fede.

La fede è avere l’occhio stesso di Dio sulla realtà. Avere occhi nuovi, cioè quell’occhio di bontà, di misericordia, di amore, di compassione, di tenerezza, di rispetto, di libertà. È questo l’illuminato, non è chi vede la luce. È chi vive con semplicità il suo essere figlio e si vuol bene perché si sente voluto bene e accoglie gli altri. Questa è la fede in concreto. E i due ciechi alla domanda di Gesù rispondono: << sì, credo che tu puoi fare questo>>. Si accende il verde del semaforo della vita e il Signore illuminerà. <<29Allora toccò loro gli occhi e disse: sia fatto a voi secondo la vostra fede. 30E si aprirono loro gli occhi>>. Se noi abbiamo fede, il Signore ci tocca. Il toccare è la forma fondamentale di esperienza e di conoscenza. Dio si fa conoscere, ci tocca. E il toccare indica scambio, comunione, entriamo in comunione con lui, abbiamo con lui lo scambio, vediamo come lui, amiamo come lui. E avviene secondo la nostra fede. Cioè riceviamo questo dono nella misura in cui abbiamo fede di riceverlo, perché Dio è dono infinito e il dono lo ricevi nella misura della tua disponibilità a riceverlo; quindi non ha misura questo dono. Il discorso non è impostato sulla volontà: volete voi che io vi guarisca? Sì lo vogliamo, e allora faccio secondo la vostra volontà, ma : credete voi che io possa farlo? Sì lo crediamo. Allora avvenga secondo la vostra fede. È tutto sul piano della fede. Ed è interessante perché avviene. La fede è l’apertura dell’occhio sulla realtà, non fa nulla di strano, fa capire il senso di questo mondo. Risponde alla domanda fondamentale: perché vivo? Vivo per vivere nelle tenebre, nell’angoscia, nella morte, destinato al nulla, o vivo per qualcos’altro, o meglio, per qualcuno? O vengo da Dio e torno a Dio e già ora vivo nei fratelli questa realtà del Padre? È questa la fede: è qualcosa di molto ragionevole e molto luminoso. Risponde alla ragione profonda dell’uomo che cerca la luce e la felicità, che cerca l’amore e la fraternità, che cerca da dove viene e dove va. Però è una ragione che non può essere dedotta da un ragionamento a tavolino, non è che uno mettendosi al buio, con le tapparelle giù deduca il sole! Deve aprire gli scuri. Deve aprirsi all’altro, cioè aprirsi al sole, aprirsi a Dio. Se no, coi miei ragionamenti non mi solleverò mai da terra, se non qualche centimetro forse e poi si ricade. E subito si aprirono gli occhi. È proprio del venire alla luce, che è la cosa più bella. Quando l’uomo dice: ora capisco chi sono, perché sono al mondo, perché gli altri. Si comincia a trovare il mondo interessante e si trovano tante cose belle che prima non si sapevano e poi le cose brutte si vedono con un altro sguardo. E poi Gesù dopo il miracolo dice loro: che nessuno lo sappia! È strano. Gesù nella sua vita non ha mai voluto pubblicità sui miracoli, se no tutti sarebbero andati a chiedere la vista. A lui non interessava dare la vista, non faceva concorrenza agli oftalmici, voleva un’altra cosa! Voleva che l’uomo aprisse gli occhi sulla realtà E non a caso si prende come modello di illuminato un cieco, perché spesso i ciechi sono i veggenti, hanno un’altra luce.

<<31Essi appena usciti, ne sparsero la fama in tutta quella regione>>. È interessante che Gesù sempre proibisca di dire, di raccontare il miracolo e sempre si trasgredisca la sua ingiunzione e tutte e due le cose sono giuste e vere: Gesù non vuole pubblicità, che non si dica; chi però ha fatto l’esperienza, la comunica.
Quindi è detto per noi che leggiamo: non dirlo a nessuno, fai prima la stessa esperienza, poi sarai come il cieco che può raccontarla. Se no, cosa racconti? Racconti la luce che non hai visto?. È uno scoprire, vedere negli altri i fratelli. Credo che proprio in questo caso il miracolo compiuto all’interno della casa sia appunto non tanto avere la vista per un vedere generico, ma è un miracolo che fa riconoscere negli altri i fratelli a quali si comunica la parola.

Passiamo all’altro miracolo.
<<32Usciti costoro gli presentarono un muto indemoniato. 33Scacciato il demonio quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva : non si è mai vista una cosa simile in Israele>>.
Quando nel Vangelo vedete accostati due racconti, non è come uno che mette insieme due pezzi che non c’entrano assolutamente; è sempre come un mosaico, c’è una storia unica che si svolge, un brano spiega l’altro. Proprio dopo aver aperto gli occhi sulla tua realtà di figlio, allora parli. E parlare vuol dire comunicare. Comunicare vuol dire entrare in comunione con l’altro. È il principio della fraternità il parlare in verità sulla realtà tua che hai visto. Quindi riesci a parlare a essere uomo, a entrare in comunione con gli altri perché finalmente sei entrato in comunione con te, con la tua verità. Fino a quando non sei in te, cosa dici agli altri? Dici delle menzogne, non parli. Nessuna parola è mai vera. Le parole servono per imbrogliarsi, per non comunicare, per fraintendere, per litigare. La parola governa il mondo tra l’altro, e l’immagine. Quando invece hai visto la realtà, ecco che la parola diventa luogo di comunione. Ed è il miracolo definitivo: la comunione tra di noi; la nostra parola è vera, risponde alla verità che ho dentro e comunica me all’altro e viceversa. È il grande desiderio dell’uomo: scoprire chi è lui e poi entrare in comunione con gli altri. Ed è interessante che questo esser muto sia imputato a un demonio. È il vero demonio, il vero spirito del male quello che impedisce la comunicazione, è il divisore, è colui che ci divide. E guardate ai grandi disturbi che abbiamo nella comunicazione, nella famiglia stessa, all’interno delle coppie e coi figli. Sono tutti disturbi di parola gravissimi, non ci si intende mai. Provate a vedere che quantità di parole durante il giorno sono espresse per esprimere stizza, rancore, rimprovero, magari celato ovviamente, perché abbiamo una certa educazione. E quante invece sono davvero espressioni di gioia, di luce e di felicità che si comunica all’altro. Quante sono parole di potere, di dominio, per accattivarsi l’altro, per prenderlo o per allontanarlo se disturba… la maggior parte. Sono parole che dividono. Sarebbe meglio esser muti. Quando siamo guariti alla vista, finalmente la nostra parola diventa parola divina, Dio è parola, è comunione, la parola è intelligenza e si dona all’altro, diventa amore. Guardavo come logicamente, essendo questo uomo chiuso in questa vitalità mortifera, separato, isolato, evidentemente questo non poteva andare da solo; i due ciechi seguivano Gesù, questi non può presentarsi da Gesù, viene portato, viene presentato. È interessante.
<<33Scacciato il demonio il muto incominciò a parlare. La folla presa da meraviglia diceva: non si è mai vista una cosa simile in Israele>>.
Non si è mai vista una cosa simile in Israele. Il punto di arrivo di tutta la storia di Israele, di tutta la promessa di Dio è questo poter parlare. Pensate quanto è bello quando ci si intende, si può parlare, comunicare! Quando la parola è armonia, risponde alla verità tua ed è colta come verità e l’altro ti comunica la verità. È il mondo nuovo. È il mondo che Dio con la sua parola ha creato fin dal principio. A questo miracolo ci vuol portare la parola di Dio.

L’ultimo versetto racconta che quanto succede non lascia le cose come prima, non lascia indifferenti, si prende posizione. O si accetta o si respinge.
<<34I farisei dicevano: Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni>>.
È interessante: i due ciechi avevano fede e ci vedono. Questi non hanno fede e vedono il contrario, sono ciechi. Cioè interpretano al contrario la realtà. È proprio così male che uno ci veda? Allora riescono a tradurre in male anche il bene e sarà il diavolo a farlo. Questa è la vera cecità: il non avere fiducia e interpretare negativamente comunque, qualunque cosa avvenga. Ed è interessante: parlano. È questo l’essere muti: il parlare per dire cose che non rispondono alla realtà. Le cattive interpretazioni della realtà, che sono normalmente le parole che leggiamo e che diciamo. Che sono la nostra cecità, viviamo allora sotto il dominio del demonio, del divisore.
Allora credo che il finale ci ricaccia all’inizio: i due ciechi. Anche se siamo farisei possiamo allora essere come i due ciechi e fare il cammino dei ciechi per giungere alla luce. O ci si apre alla parola, o si spalanca la porta o, come qui, ci si chiude con una doppia, triplice mandata, ci si blinda nei confronti della parola.

Credo che tutti noi abbiamo spesso l’esperienza del contrario della luce, di sentirci piuttosto oscuri dentro e fuori, di sentirci tristi e tenebrosi. Guardando in giro le facce normalmente al mattino quando andate al lavoro, credo che abbiate questa sensazione e poi, se vedete la vostra allo specchio, pure. E poi capita tante volte durante la giornata che ci attraversino delle ombre terribili di preoccupazioni, di ansie, che ci precipitano nel vuoto, non sai neanche quale vuoto, non sai neanche quale preoccupazione. Sono cose che avvengono. Se uno è una persona che è molto avanti spiritualmente avvengono cento, duecento volte al giorno; a una persona che non è avanti non avviene mai perché resta normalmente lì. Cioè resta normalmente al buio, piatta. Quando invece emerge un po’, s’accorge che ogni tanto va giù. Ecco, provate a pensare, fermatevi in quel momento e provate a volgere lo sguardo al Signore. Normalmente siamo tristi perché guardiamo il nostro io o almeno a quello che noi pensiamo essere il nostro io, cioè le cose da fare le nostre preoccupazioni, il mondo che ci circonda, guardiamo ciò che non va e diventiamo tristi, giustamente. Provate in quel momento a sollevare gli occhi verso il Signore: vi accorgete che cambia. Il vostro volto diventa raggiante. Cioè: se tu vivi alla presenza del tuo io o alla presenza di Dio ti accorgi subito, è come se vivessi alla presenza del sole o sotto l’ombra. Il sole c’è sempre, ma le nostre preoccupazioni ci fanno ombra. Prova in quel momento a ricordarti di Dio e ti accorgi che riconquisti la pace che ti permette di vedere la realtà con molta più serenità, con molta più forza, con verità. Perché normalmente non vediamo la verità, ma le proiezioni delle nostre paure, che poi dopo realizziamo ampiamente durante la giornata. Penso che questo suggerimento spirituale di illuminazione interiore, utilizzando i momenti oscuri di tenebra: in quel momento ci si accorge che non va bene, volgetevi al Signore. Volgi gli occhi al Signore lui libererà dal laccio il tuo piede. La citazione è dal Salmo 25, a cui faccio seguire anche quella di Efesini 5, 14: svegliati o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà.
Il miracolo del dono della vita attraverso i due segni più evidenti: il venire alla luce, il vedere la realtà e il parlare, cioè il comunicare, perché la nostra realtà è che siamo figli e quindi fratelli e nella comunicazione tra fratelli, nel dono della parola, viviamo la nostra verità. Mentre Gesù passa di lì, due ciechi lo seguivano urlando: Figlio di Davide, abbi pietà di noi!


Terza Lectio Divina

Vangelo secondo Luca 18,18-30

18 Un notabile lo interrogò: «Maestro buono, che devo fare per ottenere la vita eterna?». 19 Gesù gli rispose: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio. 20 Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre». 21 Costui disse: «Tutto questo l’ho osservato fin dalla mia giovinezza». 22 Udito ciò, Gesù gli disse: «Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi». 23 Ma quegli, udite queste parole, divenne assai triste, perché era molto ricco. 24 Quando Gesù lo vide, disse: «Quant’è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. 25 È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!». 26 Quelli che ascoltavano dissero: «Allora chi potrà essere salvato?». 27 Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio». 28 Pietro allora disse: «Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito». 29 Ed egli rispose: «In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, 30 che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà

Premessa sul vedere e guardare.

Vedere, essere visto, è un’operazione importante nella nostra vita umana. Accanto all’ascolto, il vedere è decisivo nel nostro venire al mondo. Dopo pochi giorni dalla nascita, noi apriamo gli occhi e vediamo… e così entriamo in relazione con gli altri, con le cose. Guardare è una cosa, vedere un’altra, e fissare lo sguardo sta nel registro del vedere, non del guardare. Per questo occorre “saper vedere”, e non si è mai finito di imparare quest’arte da cui dipende la comunicazione, la comunione, e quindi il sapore della vita. Non solo vedere è importante, ma anche l’essere visti. Abbiamo bisogno che qualcuno ci veda, che fissi lo sguardo su di noi, perché questo dice che qualcuno si accorge di noi, che possiamo ricevere uno sguardo da qualcuno. Essere visti è il primo modo di sentire la fiducia riposta dagli altri in noi. In ogni relazione che fa parte della nostra vita, noi non dimentichiamo mai quando “abbiamo visto”, quando “siamo stati visti”. Gesù è uno che ascolta, parla, ma soprattutto vede. Nel Vangelo di Marco ben 27 volte si attesta il vedere di Gesù, nelle sue varie sfumature: vedere, fissare lo sguardo, guardare attorno, osservare.  Il brano dell’incontro tra Gesù e il giovane ricco è particolarmente eloquente sul vedere di Gesù.

“Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò” (Mc 10,17-22)

Un tale di cui l’evangelista Marco non specifica l’identità, in modo che ognuno di noi possa riconoscersi in lui, corre e si inginocchia davanti a Gesù che è in cammino, per interrogarlo, per porgli domande (cf. Mc 10,17). Appare così una persona che cerca con passione, infatti corre, e cerca qualcuno, un maestro, perché lo aiuti nella sua ricerca di senso: “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. “Vita eterna” non é solo la vita nell’aldilà, ma è la vita piena, compiuta, senza limiti. Gesù intuisce questo desiderio che il giovane porta nel cuore; perciò la sua risposta si traduce in uno sguardo intenso pieno di tenerezza e di affetto.

E’ significativo che il giovane che lo chiama: “Maestro buono”, dunque maestro capace di amore, riconoscendo così in lui qualità non comuni. Gesù pone una contro domanda, chiedendogli: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18).

L’interlocutore di Gesù lo definisce “buono”, si vede che ha sentito parlare di lui, non è come gli altri uomini che sono cattivi, anche Gesù dirà: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli…” (cf. Mt 7,11; Lc 11,13).  Di fronte ai comandamenti ogni uomo e ogni donna è mancante, quindi è facile vedere la malvagità in ogni persona. Per questo Gesù gli ricorda di osservare i comandamenti, quelli che sono sulla seconda tavola. Nella prima ci sono i tre comandamenti rivolti a Dio, nella seconda gli altri rivolti al prossimo:  “Non  uccidere, non  commettere  adulterio,  non  rubare,  non  testimoniare  il  falso,  onora  il  padre  e  la madre e  ama il  prossimo  tuo  come  te stesso”.   Amare il prossimo come se stessi, poi, non è un  comandamento.   Nel  libro  del  Levitico  è  considerato  un  precetto,  ma  Gesù  lo  innalza  al  livello  dei comandamenti.   La  risposta  di  Gesù è  importantissima  sia per  allora, che per  oggi.   La  vita  eterna  non  dipende  solo da  come  ci  si  comporta  nei  confronti  di  Dio,  ma  da  come  ci  si  comporta  nei  confronti  degli  altri  uomini.

Il giovane ricco è chiamato  così a interrogare se stesso, deve comprendere che la bontà che Dio vuole è la bontà verso gli altri, e che il male che Dio non vuole è il male che facciamo agli altri.

Ogni comando di Dio è dato perché l’uomo si umanizzi, diventi più buono, tenda all’amore, pienezza di tutta la Legge (cf. Rm 13,9-10; Gal 5,14). Ma di fronte a queste parole di Gesù, quest’uomo, pieno di zelo,  “giovane” – come lo definisce Matteo (Mt 19,20) –, afferma con una certa ingenuità: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Mc 10,20). Ha tentato di osservarle – diciamo noi – e l’ha fatto con zelo, con convinzione, con spirito di obbedienza. Gesù, che conosce ogni uomo (cf. Gv 2,24-25), sa che in verità questo giovane non ha osservato pienamente la Legge, ma, accogliendo quella sua convinzione generosa, entra in una relazione più profonda con lui. A questo punto l’evangelista Marco – e solo lui – scrive: “Allora Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò”(Mc 10,21). Attraverso il guardare, il fissare lo sguardo, Gesù vuole comunicare in modo più profondo con quel giovane, vuole che egli “si senta visto”, si senta conosciuto nel suo cuore, si senta accolto. Di fatto Gesù mostra al giovane di essere come lui lo ha chiamato, “buono”, capace di amore, di essere come il Signore che “guarda il cuore”, che discerne in profondità, non come l’uomo che guarda l’esteriorità (cf. 1Sam 16,7). Gesù guarda quell’uomo, vede che c’è fuoco sotto la cenere, soffia su quella cenere perché appaia la brace e arda il cuore, arda di amore, in modo che il suo amore incontri l’amore preveniente e gratuito donatogli da Gesù stesso. Sì, in questo modo di vedere che non è possessivo, che non abusa, ma è benevolo, pieno di affetto e gratuito, Gesù di fatto lo ama. Quel giovane si è sentito guardato e amato dal Signore: ecco il culmine del nostro brano evangelico.

Per lui il volto di Gesù è diventato il volto di uno che offre attenzione e amore, sicché questi non vanno meritati, vanno solo accolti con stupore, perché sono la grazia. Quello sguardo di Gesù è stato come una carezza. Siamo dunque al punto più profondo dell’incontro, della relazione tra Gesù e il giovane, dove è possibile dire quello che sarebbe indicibile senza aver raggiunto quell’intensità di comunicazione data dal vedere-essere visto, dall’amare-essere amato.

E così ora Gesù può dirgli la verità più profonda: “Una cosa sola ti manca” (Mc 10,21). Gesù non gli dice: “Sì, tutto va bene, ma se vuoi fare qualcosa di più, allora va’ e vendi i tuoi beni…”, ma gli dice: “Ti manca una cosa, lasciare tutto e seguire me” (cf. Mc 10,21). Ecco dove Gesù ha portato il giovane con il suo sguardo e il suo amarlo: a riconoscere che gli manca qualcosa, una sola, ma che dunque non può essere soddisfatto di se stesso. Egli deve ormai rispondere a quello sguardo, deve sentire che lo sguardo e l’amore di Gesù lo spingono a cambiare vita, a prendere un nuovo orientamento, a mutare i rapporti che ha con gli altri e con le cose, per poter seguire Gesù e aderire a lui. Seguire Gesù senza riserve, senza avere garanzie o vie di fuga, comporterà per tutti una decisione da cui non si può tornare indietro: se si hanno beni, si vendono e si danno ai poveri; se si ha una famiglia, la si abbandona; se si ha una professione, la si lascia, allora si può seguire Gesù senza nostalgie e senza indecisioni per scelte ancora da fare.

Ma a queste parole egli si fa triste e si tira indietro (cf. Mc 10,22). Non crede a quello sguardo, non crede a quell’amore di Gesù, e quindi non sa rispondere a Gesù. Nella sua ricerca di senso questo giovane pieno di zelo e di ardente desiderio è giunto alla possibilità di scegliere: non scegliere cosa fare, ma scegliere di essere e scegliere come trovare pienezza nella propria indigenza. Ma di fronte a quell’offerta di Gesù, offerta di rischiare l’amore, si rabbuia, cambia volto, si incupisce, e con la tristezza che lo domina se ne va di nuovo per la sua strada, lontano da Gesù, il maestro, rabbi, insegnante, che aveva cercato per ricevere dei segni-segnali nella sua vita. Esce di scena rattristato perché aveva molte ricchezze  (cfMc 10,22), troppe per essere libero di seguire Gesù. Tra il mettere la fede-fiducia in Gesù, rischiando la vita, e l’avere fiducia nelle ricchezze che possiede (o che forse lo possiedono!), preferisce questa seconda situazione, a cui è abituato.

Scopriamo così che questo giovane in realtà osservava formalmente la Legge, ma non ne comprendeva né lo spirito né il fine. Sì, quello sguardo di Gesù ha raggiunto il giovane ricco, ma non è riuscito a liberarlo dalla prigione dell’avere per collocarlo nella libertà dell’essere.

Il brano, infatti,  ci  presenta  un  ricco  che  è  una  persona  buona,  una  persona  pia, ma non è  certo  generoso. Se uno è generoso non può arricchire!   Ecco la menzogna  che  l’evangelista  denuncia,  e  la  menzogna  esce  proprio  dalla  bocca dell’individuo  ricco.   Gesù  gli  ha  detto  “ama  il  prossimo  tuo  come  te  stesso”  e  il  ricco  ha  risposto  che tutto questo  lo ha  fatto.   Ma  è  falso!   Perché,  se  uno  ama  l’altro  come  ama  sé  stesso,  desidera  che  anche  l’altro  abbia almeno  le stesse  cose  che  egli possiede.   Di  conseguenza,  se  uno  è  ricco  non  può  essere  vero  che  ama  l’altro  come  sé  stesso. Non  si  può  essere  ricchi  e  vedere  che  gli  altri  vanno  in  giro  nudi  e  affamati.  Questo tale  non  ha  detto  il  vero,  è  menzognero.  Il  primo  sentimento  dell’amore,  di qualunque  tipo  di  amore,  è  desiderare  che  la  persona  amata  abbia  almeno  le  stesse cose  che  si possiedono.   Allora,  l’osservanza  dei  comandamenti  garantisce  l’ingresso  nella  vita  eterna,  la generosità  garantisce  l’ingresso  nella  comunità  dei  credenti,  dove  Dio  si  prende cura dei suoi figli.

La scena successiva del brano evangelico è lo sguardo penoso di Gesù.

Allora “Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: ‘Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!’” (Mc 10,23). Ecco un altro modo di guardare da parte di Gesù: volge lo sguardo attorno. Guarda tutti i discepoli e le folle che lo ascoltano per dire loro una parola forte. Con lo sguardo percorre in modo circolare l’uditorio, come per rivolgersi a ciascuno dei presenti, e mette in guardia denunciando una difficoltà radicale della quale Gesù stesso sembra stupirsi: come sarà difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. Ciò che è appena avvenuto, e si è concluso con l’andata via del giovane ricco, ne è una conferma.

Davvero la ricchezza è qualcosa che cattura la fiducia, la fede dell’uomo, è ciò che più facilmente si fa idolo e rende l’uomo idolatra (“l’avarizia è idolatria”: Col 3,5). Per questo Gesù ha chiamato la ricchezza “Mammona” (Mt 6,24, Lc 16,13), utilizzando la parola aramaica mamon che ha nella sua radice proprio il verbo della fede, dell’“aderire con fiducia” (aman): perché sapeva che l’uomo fa affidamento su di essa più facilmente che su tutto il resto, più che sui vincoli di sangue, di vicinanza. I beni, il denaro o le cose determinano la mente e il cuore di chi li possiede, plasmano un modo di pensare e di sentirsi al mondo. Il benessere in cui uno vive, il potere di cui uno dispone, la vanità dell’ostentazione di ciò che si ha, rendono ciascuno di noi diverso, spingono a confidare, a mettere fiducia nei beni, fino a pensare che in queste condizioni è più facile salvarsi. Ecco l’inganno: salvarsi, e dunque non attendere più la salvezza da Dio!

Lo sguardo di incoraggiamento

I discepoli sono sconcertati da queste parole di Gesù sulla difficoltà dei ricchi a entrare nel Regno, ma Gesù, chiamandoli con dolcezza “figli” (tékna: Mc 10,24), ribadisce ciò che ha detto ricorrendo a un’immagine paradossale, quella del cammello che passa per la cruna di una ago. Ebbene, è più facile che avvenga questo (cf. Mc 10,25). L’animale più grande può forse passare per lo spazio più stretto? Ma questo è più facile rispetto all’entrare di un ricco nel Regno di Dio! Lo sbigottimento dei discepoli si fa ancora più grande, ed essi gli chiedono: “Ma allora chi può essere salvato? (Mc 10,26). Chi potrà entrare nel Regno?”. Gesù legge sul volto dei discepoli quello sgomento, quell’aporia: se è così, allora per gli uomini c’è possibilità di vita eterna?

Segue allora il terzo sguardo di Gesù, Questa volta fissa lo sguardo sui discepoli soltanto, quasi per dire: “Mi rivolgo a voi, dunque non dovete temere” (Mc 10,27). Ed ecco la sua parola: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”. Gli uomini non possono dare la salvezza, anche se la cercano. L’uomo da sé non può dare senso, non può trovare ciò che fa salva la vita. Resta sempre con “qualcosa che gli manca”, come il giovane ricco; resta sempre inadeguato a raggiungere la pienezza e la beatitudine; resta un mendicante che ha bisogno di essere guardato e amato, ma guardato nel cuore, non come vedono gli uomini, e amato per sempre, senza meritare l’amore. Solo Dio è capace di questo, solo il Signore. Nei  vangeli  si  distinguono  due  verbi:  seguire  e  accompagnare.  I discepoli  stanno  accompagnando  Gesù,  sono  con  lui  giorno  e  notte,  ma  in  realtà  non lo  seguono.  Seguire  è  un  termine  tecnico  che  significa  “accoglienza  della  persona  e del  messaggio”.  I  discepoli  hanno  accolto  la  persona  di  Gesù,  ma  non  il  suo  messaggio.  Sappiamo  che Simone,  che  non  accetta  il  messaggio  di  Gesù,  verrà rimproverato  dal  Signore  che  lo chiamerà  Satana,  cioè  avversario.  Pertanto  Pietro  se  ne  esce  proprio  con  una sbruffonata:  “abbiamo  lasciato  tutto”  è  vero,  “ti  abbiamo  seguito?”  no,  questo  non  è vero,  lui sta  accompagnando  Gesù.   Ogni  vangelo  ha  una  sua  linea  teologica;  è  interessante  vedere,  nel  vangelo  di Giovanni,  che  solo  alla  fine,  dopo  la  resurrezione,  Gesù  si  rivolge  a  Simone  e  gli  dice “E detto questo aggiunse: «Seguimi»” (Gv 21,19).   Fino  alla  fine,  ancor  dopo  la  morte  e  la  resurrezione,  questo  discepolo  non  seguiva Gesù. Leggiamo nel Vangelo di Matteo (19,28): “E Gesù disse loro: «Io vi dico in verità che nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, anche voi, che mi avete seguito, sarete seduti su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele”. “Nuova  creazione”  è  un  termine  greco (paliggenes)che  significa “rigenerazione” e che  indicava la vita  dell’aldilà.

Conclusione
Questo brano evangelico è il racconto di vocazione di un giovane: una vocazione abortita, una vocazione mancata, con l’esito di una grande tristezza. Questo dice la forza della nostra pagina per ognuno che si fa discepolo, che incontra nella sua vita il Signore. Ma io credo che questo testo riguardi non solo la vocazione di ciascuno di noi, bensì il nostro quotidiano, nel quale sempre cerchiamo il volto di Gesù che ci precede, lo sguardo di Gesù che ci discerne e ci parla. Gesù mi guarda, guarda ciascuno di noi, fissa lo sguardo sul nostro volto e guardandoci ci ama. Il giovane ricco non si è lasciato conquistare dallo sguardo di amore di Gesù e così non ha potuto cambiare. Solo accogliendo con umile gratitudine l’amore del Signore ci liberiamo dalla seduzione degli idoli e della cecità delle nostre illusioni. Il denaro, il piacere, il successo abbagliano, ma poi deludono: promettono vita, ma procurano morte. Il Signore ci chiede di staccarci da queste false ricchezze per entrare nella vita vera, la vita piena, autentica, luminosa.

Domande:

Noi crediamo a questo sguardo? Siamo attenti a leggere questo sguardo nella sua gratuità, nel suo non voler sedurre ma nel suo offrirci amore senza imporlo? Siamo disposti ad accogliere questa precedenza con cui il Signore ci ama e ci sceglie, anche se noi non ci giudichiamo degni? Siamo pronti ad accompagnarlo o a seguirlo?

Queste sono domande che mettono in gioco la qualità della nostra relazione con il Signore, in questo incrocio di sguardi, quello del Signore e il mio, È sempre questione di saper “vedere” e sapere cosa significhi “l’essere visti”.


Quarta Lectio Divina

Vangelo secondo Marco 5,21-43

21 Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22 E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23 e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24 Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.

25 Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26 e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27 udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28 Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29 E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.

30 E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31 I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: «Chi mi ha toccato?»». 32 Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33 E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34 Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».

35 Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36 Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». 37 E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38 Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39 Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». 40 E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41 Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». 42 E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43 E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

I due miracoli di questa pagina del Vangelo di Marco: la guarigione della donna che perdeva sangue e la risurrezione della figlia di Giairo si commentano vicendevolmente incentrandosi su un unico messaggio. Tre parole legano i due momenti: “Salvare”, “Credere”, “Toccare”. Vi sono due donne, hanno in comune dodici anni. Una che aveva problemi di salute con sofferenze fisiche da dodici anni, e una fanciulla che aveva dodici anni di età.  Una, segregata e paurosa, l’altra, figlia di un capo della sinagoga. In questo brano evangelico, l’intento di Marco è di indicare Gesù come colui che suscita la fede. E’ una catechesi sul cammino della fede in tre tappe:

  1. una fede incipiente: quella che vede solo il proprio bisogno e limite, e guarda all’onnipotenza divina come ad una soluzione
  2. un secondo livello è dato dallo sguardo di Gesù che cerca un dialogo, un rapporto. Da questo dialogo sgorga una parola che riapre alla speranza e alla vita al di là di quello che si poteva sperare di ottenere: “Va’ in pace!”. La fede ottiene così non solo un dono di guarigione fisica, ma diviene salvezza per la totalità dell’uomo. Non siamo guariti solo dalla nostra miseria, ma dall’amore di Cristo, ci viene dischiuso il limite stesso nel quale eravamo bloccati.
  1. Un terzo livello ancora più alto è la fede che Gesù domanda a Giairo. Egli richiede una fiducia totale, che va al di là di ogni evidenza umana. E’ un invito a “sperare contro ogni speranza”. “Credi tu questo?” (Gv 11,26).

Andiamo con ordine: ci troviamo sulla riva del lago di Tiberiade, a Cafarnao, luogo dove Gesù svolge la sua predicazione. Attorno a lui c’è sempre folla. Ci chiediamo: per quali motivi la gente andava da lui? Possiamo ipotizzarne tanti: per curiosità, con varie attese, ricerca di qualche esperienza straordinaria: “non è uno che fa miracoli?”. Spera di ottenerne qualche tornaconto. Perché ne hanno sentito parlare. Lo segue perché percepisce una parola diversa, detta “con autorità”.

Anche noi chiediamoci: quale è il motivo che ci porta da Gesù?

Da Gesù va Giairo, è un capo della sinagoga. Il capo della sinagoga dirige il servizio divino, conferisce le varie funzioni, cura la manutenzione dell’edificio.

Il gesto di gettarsi ai piedi indica la sua supplica, ma anche la sua disperazione, e l’urgenza della sua preghiera. Una preghiera di supplica che nasce dal profondo dell’angoscia, da una situazione disperata: la “figlioletta” è agli estremi, sta morendo. Il cuore di questo papà è spezzato. Ha un amore grande per quella figlia, è il suo tesoro, la sua speranza. Da una situazione così lacerante sorge un pressante invito rivolto a Gesù: “vieni”, con una speranza: perché sia “salva” e “viva”. Egli prega in nome di sua figlia. La ragazza deve essere “salvata”: quindi non si tratta di una semplice guarigione, ma di una salvezza da domandare. Una vita nuova da richiedere.

Gesù si avvia con Giairo. Gesù sta con chi è solo, consola Giairo solamente camminando con lui verso la sua casa che è in pianto. Si incamminano senza parole, il dolore non domanda spiegazioni, ma condivisione; non cerca un maestro sapiente che ne spieghi il senso – in tutta la Bibbia, per quanto lo si cerchi, non si trova la risposta al perché del male – ma si trova sempre qualcuno che faccia strada insieme, uno su cui appoggiare le ferite del cuore. Si incamminano e con loro, in mezzo a loro, cammina la speranza. E’ un cammino fianco a fianco, sulle strade polverose della vita.

La folla continua a seguire Gesù, gli si stringe attorno. Sbuca una donna, è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. E’ una radicale malattia e debolezza. Solo un intervento divino può liberare da una tale situazione. La donna perde sangue, il sangue è segno della vita, quindi perde vita. La sua malattia la rende impura, immonda. Di per sè rende impura ogni cosa che tocca. Non può entrare nel tempio, né partecipare alle feste religiose (es. la pasqua). Come la lebbra essa la esclude addirittura dalla società umana. Aveva tentato molte vie per guarire, ma invano! I rimedi proposti hanno peggiorato il male, un po’ come chi sta annegando che più si agita più va a fondo.  Leggiamo nel testo che questa donna: “Avendo udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello”. Vediamo come qui la fede procede dall’ascolto, “avendo udito”. E’ convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita e compie un azzardo, un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30). Trova il coraggio di andare contro la legge.  Il verbo “toccare”, inserito nella narrazione è molto importante. Esprime con un’immagine materiale la fede che è un venire a contatto con Gesù. La donna è convinta che il contatto fisico con Gesù è salvezza. Il toccare nella fede è particolare perché fa sprigionare la potenza di Cristo. Ma vi è anche un altro toccare, quello della folla, che solo opprime e non produce nulla. Vi è un “toccare” interiore, quello della fede, ed uno esteriore ad indicare una vuota vicinanza. La donna tocca il mantello di Gesù alle spalle perché ha paura. Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca. Non vuole scoprirsi nella sua povertà. Non vuole esporsi: è immonda. In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù. Il vangelo sottolinea la disperazione e la sconfinata fede di questa donna a cui Gesù risponde con la guarigione e il dialogo. La fede dunque non è solo esperienza soggettiva ma è incontro spirituale e personale con Dio. La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Non è il contatto fisico che guarisce (=magia) ma la fede che è rapporto personale. Ci dona la sua vita perdendola. Gesù si accorge di chi si avvicina, di chi lo tocca e partecipa con la sua compassione alle loro sofferenze. E’ Gesù che in verità “tocca” la donna. La donna tocca alle spalle il mantello, Gesù si volge e tocca con il suo sguardo. Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio. L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti. Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male». “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza “Và in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio. La santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”.

Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una peccatrice, dai discepoli, dalle folla. Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità. Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione.

Gesù stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire a Giairo: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». La tempesta definitiva della morte è arrivata. La notizia che viene portata fa cadere l’ultima speranza. Noi diciamo:<<Finchè c’è vita c’è speranza!>>, ma quando arriva la morte l’esclamazione è somma:<<Di fronte alla morte non c’è più niente da fare!>>. Gesù parla con tenerezza combattiva e si fa argine al dolore e alla paura di Giairo :<<Non temere, soltanto abbi fede>>. Ma fede in che cosa? Nella vita? No, perché nel duello con la morte la vita soccombe. Non è la vita che vince la morte, è l’amore. <<Amare è dire: tu non morirai>> (Gabriel Marcel). Questo dice Gesù riguardo alla bambina che non conosce, ma amata: tu non morirai. E così si circonda di chi ha amore.  Prende con sé il padre e la madre della fanciulla e tre discepoli. In una situazione di morte, di disperazione Gesù continua a far risuonare la sua parola: “Tu continua ad avere fede”, quella fede che ha fatto uscire il papà della fanciulla  di casa in cerca di ascolto e di aiuto. Il contrario della paura non è il coraggio o la forza d’animo, noi non siamo degli eroi. L’antagonista vero della paura è la fede, il fidarsi, l’affidarsi nonostante tutto, l’aggrapparsi ad una mano forte che non lascerà cadere.

<< Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano>>. E’ la nostra poca fede che chiama “morti” coloro che si sono addormentati nel Signore, ma loro invece sono “solo andati via”.Vivono  nella casa del cielo, ci attendono, li vedremo, dormono. La morte è una parentesi breve di separazione, come un sonno, come una notte, tra questo sole e l’altro Sole.

Di fronte alle lacrime amare che si versano in quella casa Gesù non si ferma a consolare ma dice:<<La bambina non è morta, ma dorme>>. La morte è evidente a tutti, ma Dio ora inonda di vita anche le vie della morte.

Gesù prende con sé il padre e la madre della fanciulla, crea compagnia, vicinanza; prende i due che amano di più, perché forte più della morte è l’amore (cf Ct.), prende con sé anche i tre discepoli. Il luogo dove Gesù entra è una stanzetta interna, un lettino, una sedia, con un dolore che prende alla gola nel vedere la fanciulla morta. Gesù entra nella dimora della morte, lo fa per essere con noi e come noi. Non spiega il male, entra in esso, lo invade con la sua presenza, dice: Io ci sono.

<<Prese la mano della fanciulla>>. Gesù è una mano che ti prende per mano. Bellissima questa immagine: una fanciulla e il figlio di Dio mano nella mano, concretamente, con forza e con dolcezza. Gesù, una storia di mani: in tutte le case, accanto al letto del dolore o a quello della nascita, Dio è sempre una mano tesa, come lo è stato per Pietro quando stava affogando nella tempesta. Non un dito puntato, ma una mano forte che ti afferra.

Toccare l’altro è un movimento di compassione; toccare l’altro è desiderare con lui; toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano; toccare l’altro è dirgli:“Io sono qui per te”; toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”; toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è; toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.

Nel silenzio di quella stanza Gesù prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Alzarsi, svegliarsi, sono i verbi di ogni nostro mattino quando si riaccende la nostra piccola risurrezione quotidiana, e ci svegliamo e ci alziamo. <<E subito la fanciulla si alzò e camminava>>, restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita verticale e incamminata. Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni bambino risuona la benedizione di quelle antiche parole <<Talita Kum>>, giovane vita, dico a te: alzati, rivivi, risplendi, cammina.

Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore. “Datele da mangiare” come a dire datele tutto ciò che fa ripartire la vita: la gioia, la tenerezza, la bellezza. Nutrite di sogni, di carezze e di fiducia il suo cuore di bambina, con la generosità dell’accudimento, un prendersi cura che non si stanca. Compito supremo di ogni creatura è custodire delle vite con la propria vita.

La casa di Giairo è il simbolo di tutte le nostre case: se abbiamo fede è il luogo dove accadono miracoli, dove alla fine l’amore è più forte, dove la vita è custodita dai nostri cari e da Dio, con una infinita pazienza per ricominciare giorno dopo giorno.

Non cedere nella fede, neppure di fronte all’evidenza della sua apparente inutilità.

E’ la fede che salva, chiamata a confrontarsi con la morte.

“La tua fede ti ha salvata” (v 34).