Solennità di San Ciriaco: celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo Angelo Spina

Registrazione della diretta dalla Cattedrale di Ancona

Nella solennità di San Ciriaco, patrono dell’Arcidiocesi di Ancona-Osimo e della città di Ancona, Mons. Angelo Spina ha presieduto questa mattina, alle ore 10, la celebrazione eucaristica nella Cattedrale, trasmessa in diretta su èTV Marche – Canale 12. Come di consueto, prima della Santa Messa, la sindaca di Ancona Valeria Mancinelli, accompagnata dall’Arcivescovo e da Marcello Bedeschi, ha offerto l’omaggio floreale a San Ciriaco, dopodiché Mons. Angelo Spina ha presieduto la Santa Messa, concelebrata dal vicario generale don Carlo Carbonetti, dal rettore del Duomo don Giuliano Nava e dagli altri sacerdoti della diocesi. All’inizio della celebrazione, Mons. Angelo Spina ha salutato tutti i presenti, le autorità civili e militari, tra cui il questore di Ancona Cesare Capocasa, e padre Ionel Barbarasa (Chiesa ortodossa romena). Al termine della Santa Messa, sul sagrato della Cattedrale, l’Arcivescovo ha elevato una preghiera a San Ciriaco e ha impartito la benedizione con il reliquiario, contenente un frammento della croce di Cristo e la reliquia di san Ciriaco.

L’OMELIA DELL’ARCIVESCOVO ANGELO SPINA

Cari fratelli e sorelle,
celebriamo oggi la solennità del nostro santo Patrono, San Ciriaco, nel terzo anno di pandemia, in un tempo tormentato da guerre con le tante incognite che generano angoscia. I santi, amici di Dio e nostri intercessori, fanno luce al nostro cammino perché non venga meno la fiducia e la speranza e San Ciriaco, patrono della città di Ancona e dell’intera Arcidiocesi di Ancona-Osimo, ci è vicino proprio nel momento della prova. San Ciriaco, prima della conversione era un ebreo di nome Giuda, scriba a cui si rivolse Elena, la madre dell’imperatore Costantino perché gli svelasse dove era custodita la croce di Cristo. Dietro le sue insistenze cedette e nel 326, a Gerusalemme, venne ritrovata la santa Croce. Il dipinto alla destra dell’abside dell’altare maggiore raffigura l’inventio crucis, il ritrovamento della croce. A seguito di questi eventi Giuda si convertì al cristianesimo e si fece battezzare prendendo il nome di “Kuriakòs” (dal greco Kurios, che significa “del Signore”) venne, poi, eletto vescovo. Ma per quello che aveva fatto subì un processo e il martirio a Gerusalemme nel 363, con atroci tormenti, durante la persecuzione di Giuliano l’Apostata. Nel 418 dopo Cristo, poco più di 1600 anni fa, alla nostra città veniva donato il corpo di San Ciriaco martire, da Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio, da Gerusalemme giungeva nella nostra città porta d’Oriente e via della pace. La sua presenza è stata sempre come un faro di luce nei momenti bui, a cui la città si è rivolta e ha trovato conforto e forza per il cammino. San Ciriaco è l’uomo della croce che prima la fa ritrovare, poi l’abbraccia e infine la testimonia con il martirio.

Oggi veniamo invitati a guardare alla croce con le parole del Vangelo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorni e mi segua». Guardiamo alla croce di Cristo da cui sgorga la pace, quella vera. Sul luogo della crocifissione, sul calvario si scontrano due mentalità. Da un lato quella di salvare se stessi e dall’altro lato quella di salvare l’umanità. Le parole di coloro che crocifiggono Gesù sono: “Salva te stesso”. Lo dicono i capi: «Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto» (Lc 23,35). Lo ribadiscono i soldati: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (v. 37). E infine, anche uno dei malfattori, che ha ascoltato, ripete il concetto: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso!» (v. 39). Salvare se stessi, badare a se stessi, pensare a se stessi; non ad altri, ma solo alla propria salute, al proprio successo, ai propri interessi; all’avere, al potere, all’apparire. Salva te stesso: è il ritornello dell’umanità che ha crocifisso il Signore. Il salva te stesso si scontra con quello che Gesù fa sulla croce. Lui offre se stesso. Una sua espressione, in particolare, segna la differenza rispetto al salva te stesso ed è: «Padre, perdona loro» (v. 34). Queste parole Gesù le dice durante la crocifissione. Quando sente i chiodi trafiggergli i polsi e i piedi. Proviamo a immaginare il dolore lancinante che ciò provocava. Lì, nel dolore fisico più acuto della passione, Cristo chiede perdono per chi lo sta trapassando. In quei momenti verrebbe solo da gridare tutta la propria rabbia e sofferenza; invece Gesù dice: “Padre, perdona loro”. Non rimprovera i carnefici e non minaccia castighi in nome di Dio, ma prega per i malvagi. Affisso al patibolo dell’umiliazione, aumenta l’intensità del dono, che diventa per-dono. È dalle sue piaghe, da quei fori di dolore provocati dai nostri chiodi che scaturisce il perdono. Guardiamo Gesù in croce e pensiamo che non abbiamo mai ricevuto parole più buone: Padre, perdona. Guardiamo Gesù in croce e vediamo che non abbiamo mai ricevuto uno sguardo più tenero e compassionevole. Guardiamo Gesù in croce e capiamo che non abbiamo mai ricevuto un abbraccio più amorevole. Guardiamo il Crocifisso e diciamo: “Grazie Gesù: mi ami e mi perdoni sempre, anche quando faccio fatica ad amarmi e perdonarmi”. Lì, mentre viene crocifisso, Gesù vive il suo comandamento più difficile: l’amore per i nemici. Pensiamo a qualcuno che ci ha ferito, offeso, deluso; a qualcuno che ci ha fatto arrabbiare, che non ci ha compresi o non è stato di buon esempio. Quanto tempo ci soffermiamo a ripensare a chi ci ha fatto del male! Così come a guardarci dentro e a leccarci le ferite che ci hanno inferto gli altri, la vita o la storia. Gesù oggi ci insegna a non restare lì, ma a reagire. A spezzare il circolo vizioso del male e del rimpianto. A reagire ai chiodi della vita con l’amore, ai colpi dell’odio con la carezza del perdono.

La pace che sgorga dalla Croce  e che dà il Signore Gesù è “fare di due, uno” (cfr Ef 2,14), annullare l’inimicizia e riconciliare. La strada per compiere questa opera di pace è il suo corpo. Egli infatti riconcilia tutte le cose e mette pace con il sangue della sua croce (cfr Col 1,20). L’amore per sua natura è creativo e cerca la riconciliazione a qualunque costo. Sono chiamati figli di Dio coloro che hanno appreso l’arte della pace e la esercitano, sanno che non c’è pace senza perdono e che la pace va cercata sempre e comunque. Questa non è un’opera autonoma, frutto delle proprie capacità, è manifestazione della grazia ricevuta da Cristo, che è nostra pace, che ci ha resi figli di Dio. Ferma deve essere allora nel nostro cuore la decisione: “Io non voglio odiare nessuno. Voglio la pace per me e per ogni altro essere umano in ogni angolo di questo pianeta”. È urgente far sentire l’urlo che riconosce ogni persona fratello e sorella. La guerra va per sempre ripudiata, come la fame, come ogni ingiustizia compiuta da un uomo a danno di  un altro uomo. Le tragedie che viviamo in questo momento, particolarmente la guerra in Ucraina così vicina a noi, ci richiamano l’urgenza di una civiltà dell’amore. Nello sguardo dei nostri fratelli e sorelle vittime degli orrori della guerra, leggiamo il bisogno profondo e pressante di una vita improntata alla dignità, alla pace e all’amore. È rimasta impressa nei nostri occhi l’immagine di due donne, una ucraina e un’altra russa, abbracciate dalla croce, hanno camminato insieme e nel silenzio durante la Via Crucis al Colosseo lo scorso venerdì santo. Quando ci si lascia abbracciare dalla croce salvifica di Cristo, si può camminare insieme come fratelli e sorelle ricevendo il perdono di Dio e dandolo ai fratelli e alle sorelle.

Cari fratelli e sorelle, lo scorso anno nell’omelia sottolineavo come è necessario l’impegno di tutti per riportare la famiglia al centro dell’attenzione della Chiesa e della società, rimarcando che il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa. Quest’anno desidero porre una attenzione particolare agli adolescenti. Lunedì dell’Angelo, in Piazza San Pietro, all’incontro con il Papa, si sono ritrovati in ottantamila e dalla nostra Arcidiocesi ne erano presenti quattrocento, recatisi a Roma con dieci pullman. Certamente le cronache dei nostri giorni non sempre parlano bene di loro. Non dobbiamo scoraggiarci. Essi attendono una presenza amica e rassicurante, anche se all’inizio si presentano spavaldi o annoiati, abulici o depressi, persino violenti, bulli. Con i genitori, gli educatori, gli animatori sono chiamati a raccolta tutti coloro che hanno il compito della formazione. I ragazzi ci chiedono una cosa sola: voi dovreste sapere cosa significa che noi dobbiamo e vogliamo diventare grandi e non possiamo farlo senza la vostra vicinanza. Oggi l’impresa più grande da affrontare è quella educativa. Tuttavia gli educatori non possono ritrovare la passione del loro compito, se non lo vivono come una vocazione: non è solo una professione, ma una chiamata, non è solo uno stipendio per vivere, ma un compito per far vivere. È urgente l’alleanza tra tutte le forze sociali e le componenti educative della società: la famiglia che educa, la scuola che forma, l’oratorio parrocchiale spazio di vita, lo sport sano, non sono riserve indiane a lato di una società che per la parte più importante fa altro, cioè si dedica all’economia e alla produzione. Serve un grande patto educativo fra tutti i soggetti che si affaticano al compito formativo: anche la scuola ha bisogno di più stima, più sostegno sociale, più apprezzamento.

Senza più politiche sociali da parte degli enti locali, senza più educatori di strada che vadano a intercettare i ragazzi e i giovani, la prevenzione sembra diventata una parolaccia. Invece, bisogna tornare ad affiancare alla necessaria azione di controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, anche il bisogno di una comunità educante. È necessario: formare, prevenire, educare. Non è la repressione che cambierà la persona e la società, lo sappiamo bene, ma il cambiamento interiore. Come Chiesa, coinvolgendo le famiglie, i genitori, gli educatori, gli insegnanti, siamo chiamati ad accogliere con urgenza il grido di aiuto dei ragazzi e dei giovani. È necessario ascoltarli, riconoscerli, accompagnarli con un atteggiamento di dedizione e di empatia per la loro stessa vita. Per questo, mentre aspettiamo di ripartire, il cuore della rinascita non potrà essere che un tempo formidabile da dedicare all’educazione delle nuove generazioni. In questa solennità del nostro santo Patrono, giunga a tutti e alle persone che hanno responsabilità civili, sociali, amministrative la nostra gratitudine e il sostegno della comunità cristiana, accompagnato dalla preghiera per il bene comune che promuovono ogni giorno, affinché prevalgano – pur nel rispetto dei differenti ruoli e posizioni – una unità di intenti e una costante ricerca delle risposte più appropriate per far fronte alle necessità dei cittadini e delle famiglie, a partire dalle persone più fragili e più povere. Affidiamo a San Ciriaco la protezione della nostra Arcidiocesi, della nostra Città, affinchè ci liberi da ogni male indicandoci la via del cielo con una testimonianza coerente come ha fatto lui fino al martirio. Amen.

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