Presentati i programmi per l’anno pastorale al ritiro del Clero

Al ritiro diocesano del Clero sono stati presentati dai direttori degli Uffici pastorali i programmi per l’anno 2023-2024. L’Arcivescovo, dopo il momento di preghiera, dell’adorazione e dell’ora media, ha tenuto la meditazione sul capitolo 24 del Vangelo di Luca. Ha tracciato il cammino per il prossimo anno pastorale invitando a vivere con entusiasmo il cammino sinodale e cogliere l’opportunità del cambiamento per una chiesa che valorizza la ministerialità dei laici e pronta alle nuove sfide per promuovere le unità pastorali. Sono seguiti gli interventi di alcuni direttori degli uffici pastorali per un cammino da fare insieme come chiesa mettendo al centro la formazione, la famiglia, i giovani, l’attenzione ai poveri e la formazione alla carità.

Di seguito viene riportata la meditazione dell’Arcivescovo:

<<Leggendo il vangelo di Luca al capitolo ventiquattresimo versetto 34-35, mi colpisce la parte finale quando i due discepoli da Emmaus

“Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane”.

I due trovano gli undici riuniti e gli altri che dicono questa frase: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. E’ un annuncio kerigmatico, pasquale che non avviene all’esterno, ma all’interno della comunità, “davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Quel “davvero”, cioè in verità, veramente, non è posto a caso.

I discepoli non pensavano che Gesù fosse risorto, c’erano i dubbi di Pietro e degli altri che di fronte alle donne che venendo dal sepolcro portarono l’annuncio della risurrezione rimasero increduli: “Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto”. (Lc 24, 1-12)

E’ questa prima comunità che ci comunica che il Signore è davvero risorto e questo ha fatto comprendere la morte scandalosa del Signore.

Come è bello riscoprire questo oggi tra noi. Noi che abbiamo adorato il Signore presente nella santa Eucarestia e dirci l’uno all’altro: “Il Signor è veramente risorto” dircelo ad alta voce, dircelo con convinzione. Quando sono stato ad Atene, anni fa, a celebrare la Pasqua ortodossa, il giorno di Pasqua ho assistito a delle scene edificanti, le persone si scambiavano l’augurio pasquale con l’uovo sodo in mano. L’uno batteva l’uovo dell’altro e diceva Cristos aneste e l’altro rispondeva alethos aneste. Cristo è risorto, è davvero risorto. E’ questo annuncio che incide nella vita delle nostre comunità.

I discepoli di Emmaus aprirono gli occhi allo spezzare il pane. L’eucaristia fa aprire gli occhi del cuore.  L’Eucaristia è il centro della nostra vita, mistero pasquale a noi dato per la nostra salvezza, per la nostra speranza e per il mondo.

Partendo dalla fine del capitolo ventiquattresimo di Luca, ripercorrendolo velocemente possiamo vedere che c’è un’intima relazione tra Celebrazione eucaristica e il Cammino sinodale. Non è solo un’analogia a unire i due momenti – Eucaristia e Sinodo si “celebrano” – ma una co-im­plicazione tale che si potrebbe definire l’assemblea eucaristica un “Sinodo concentrato” e il Cammino sinodale una “Eucaristia dilatata”. Questa intima relazione orienta nella com­prensione delle categorie sinodali: non si tratta tanto di “democrazia” quanto di “parteci­pazione”, non solo di un raduno di “gruppo” quanto di un’“assemblea” convocata, non di esprimere semplici “ruoli e funzioni” ma “doni e carismi”. Nel Cammino sinodale, come nella Celebrazione eucaristica, il popolo radunato vive l’esperienza della grazia che viene dall’Alto, in quella partecipazione definita “actuosa” da Concilio Vaticano II (cf. Sacrosan­ctum Concilium, n. 14), quindi capace di coinvolgere nella Celebrazione comunitaria.

Emmaus è una sorta di Celebrazione eucaristica itinerante, che aiuta a comprendere le dinamiche del camminare insieme: dall’isolamento alla comunione, fino alla scoperta della verità di sé. Siamo noi quei discepoli – uno dei quali è appositamente anonimo perché ciascuno si metta al suo posto – e siamo in cammino. Siamo l’assemblea raduna­ta dalle nostre case; un’assemblea di battezzati che confessano prima di tutto i propri peccati, le proprie delusioni, le proprie fughe da Gerusalemme, le proprie nostalgie per la vita di prima: «Noi speravamo…» (Lc 24,21).

Il Signore ci lascia sfogare, anzi provoca il nostro sfogo – «Che cosa sono questi discor­si che state facendo tra voi lungo il cammino?» (Lc 24,17) – perché non ha paura dei nostri lamenti.

La liturgia della Parola, alla cui strutturazio­ne ha contribuito anche questa pagina del Vangelo, offre il paradigma principale per il discernimento, che deve avvenire nell’ascolto comunitario delle Scritture, attraverso la chiave di lettura cristologica: la Parola di Dio è illuminata dalla Pasqua, dal kerygma di morte, sepoltura, risurrezione, vita nuova.

I discepoli sono apostrofati dal Signore come «stolti e lenti di cuore!» (Lc 24,25) non perché Gesù si lanci in un rimprovero, ma perché legge nel profondo del loro cuore. La severa parola di Gesù diventa così una rivelazione: non una condanna, ma un giudizio che fa luce. I discepoli di ogni epoca sono “stolti e lenti di cuore” quando adottano cri­teri di lettura della realtà che prescindono da Lui, parametri mondani e ragionamenti umani che portano allo scetticismo e alla freddezza. Gradualmente il loro cuore torna ad “ardere”, perché la Parola di Gesù riattiva nei due discepoli la familiarità con Lui.

Hanno avvertito che quella parola non è pronunciata da una cattedra, ma sulla strada, camminando insieme. La parola che scalda, anche quando il predicatore è fermo sul pulpito – come nella Celebrazione eucaristica – è una parola itinerante, che nasce dalla condivisione di un cammino.

Giunti a Emmaus, l’invito dei discepoli è una risposta al Maestro, quasi un’implorazione a Colui che ha fatto balenare una luce nuova nella loro vita; è una sorta di “preghiera dei fedeli”, come risposta alla parola che scalda il cuore. Ma questo invito esprime anche il desiderio di accogliere “il forestiero”, come l’avevano de­finito all’inizio del dialogo; quel «resta con noi» è un gesto di ospitalità, l’offerta della casa e della mensa; è un segno offertoriale, la condivisione delle proprie risorse.

Dalla fase del lamento autoreferenziale stanno passando a quella dell’accoglienza comunitaria del Signore e dei fratelli. Si potrebbe dire, utilizzan­do il linguaggio teologico, che sta crescendo in loro un “fiuto” ecclesiale, si sta formando un “senso di fede” non più solo individuale ma condiviso (sensus fidei fidelium). Prima pensavano solo a recriminare, a recuperare il passato, a rinchiudersi nuovamente nel loro villaggio; ora cominciano a capire che possono aprirsi all’altro, al pellegrino, e diventare comunità accogliente.

Il pane posto sulla mensa dai discepoli diventa poi pane eucaristico: così come nei racconti della moltiplicazione, in questa scena l’evangelista usa con cura il linguaggio dell’ultima Cena: «Prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 24,30). Solo «allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31). Riconosce pienamente il Signore risorto chi lo sperimenta come Signore offerto, come pane spez­zato e donato. Solo chi avverte l’abbraccio del suo amore può riconoscere e confessare che “Gesù è il Signore” (cf. 1Cor 12,3).

La scomparsa fisica del Signore è la condizione perché i due discepoli non si attardino a parlare con Lui, non lo accerchino, non si chiudano in una bolla emotiva, è la spinta per tornare a Gerusalemme: ora tocca a loro testimoniare il Signore. Il pane condiviso, insieme all’ardore del cuore, li mette in cammino, li spinge a ripercorrere gli undici chi­lometri in direzione inversa rispetto all’itinerario precedente. Gerusalemme è la città della Pasqua, il punto d’arrivo della missione terrena di Gesù e il punto di partenza della missione storica della Chiesa.

A Gerusalemme i due trovano «riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro» (Lc 24,33), i quali annunciano il kerygma: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simo­ne!» (Lc 24,34). E loro stessi raccontano quanto è «accaduto lungo la via» (Lc 24,35). Sembra di sentire l’anticipo – o l’eco – di quanto scrive san Paolo, quando, tre anni dopo la conversione, va a Gerusalemme «a conoscere Cefa», rimanendo con lui quindici gior­ni (cf. Gal 1,18) e poi, quattordici anni dopo, torna di nuovo a Gerusalemme, esponen­do il Vangelo alle persone più autorevoli, «per non correre o aver corso invano» (cf. Gal 2,1-2).

Si va da coloro che sono posti alla guida delle comunità, come garanti della fede apostolica e dell’autenticità dell’annuncio (“Tradizione”) e della comunione ecclesiale (“Cattolicità”).

La narrazione dell’esperienza pasquale tra i due discepoli di Emmaus, gli Undici e altri che erano con loro, porta a conclusione il discernimento: il confronto con la Tradi­zione e il Magistero, nel reciproco ascolto e nella decisiva testimonianza di Pietro, fa maturare il “consenso dei fedeli” (consensus fidelium), che avviene “con Pietro e sotto Pietro” e mai senza di lui o addirittura contro di lui. Il Cammino sinodale dei due di Emmaus, e di tutti noi discepoli come loro, comporta la piena comunione ecclesiale.

A Gerusalemme, infine, si ferma Maria dopo la Pasqua: nel Cenacolo insieme agli Apostoli, è presente lei, la Madre di Gesù (cf. At 1,14), che diventa sotto la croce la Ma­dre del «discepolo amato», di tutta la Chiesa (cf. Gv 19,25-27). La missione ecclesiale comincia e prosegue in compagnia della Madre con al centro il Signore crocifisso e risorto, che è con noi tutti i giorni sino alla fine del mondo>>.